Generazione Z tra futuro negato e nuove forme di esistenza
In che contesto è nata e sta vivendo la generazione Z? Siamo immersi in una modernità liquida dove le definizioni di genere, i ruoli e le appartenenze tradizionali, che per lungo tempo hanno retto il patto sociale, si stanno risignificando. Dall’altra parte, le risposte di governi e Stati sono via via più rigide e repressive, inibendo sempre più ogni forma libera di autonomia e sperimentazione. Una società in declino che non lascia sperare in un futuro di libertà e prosperità per tutt3.
Probabilmente ciò che disturba e inquieta di più della generazione Z è che sovverte nei fatti e ideologicamente il sistema di valori, aspettative e privilegi che ha caratterizzato l’esperienza di boomer e millennial.
Il neoliberismo, con la sua promessa di libertà ridotta a consumo, ha addomesticato desideri e sguardi, imponendo l’idea che esista una sola realtà possibile, questa.
A complicare il quadro, negli ultimi anni, abbiamo affrontato una pandemia che ha comportato un grande sacrificio in termini di isolamento sociale, soprattutto per l3 giovani. La crisi climatica, fonte di angoscia, appare ormai inarrestabile.
La precarietà lavorativa ed esistenziale non è più parentesi, ma condizione di base. A questo si aggiungono guerre e devastazioni, fino al genocidio del popolo palestinese, seguito in tempo reale nella sua drammaticità intollerabile, senza che nessuno riesca a fermarlo.
In sottofondo il messaggio è chiaro: chi dovrebbe proteggere, governare, mettere limiti al disastro non lo fa. Il fantomatico mondo adulto ha fallito nella sua funzione contenitiva e supportiva.
Senza bussola
Molt3 giovani sostengono di non scorgere un orizzonte verso cui navigare. Per secoli, l’idea che fosse possibile costruire una vita migliore, per sé e per il mondo, ha sostenuto progetti, lotte e riforme.
Oggi, al posto di una tensione utopica, si è insediata la distopia.
Il futuro non è più qualcosa che si costruisce, ma il luogo in cui esplodono, senza poterle fermare, le conseguenze concrete di ciò che è già in atto. L’immaginario è un immaginario di fine che in molti sensi è già iniziato.
Le analisi decoloniali stanno da tempo mettendo a nudo il ruolo dell’Occidente come causa diretta di sofferenze, devastazioni e diseguaglianze globali.
La generazione Z in Europa vive un paradosso brutale: nasce nel lato del pianeta che è parte in causa dell’attuale collasso globale.
Cresce sapendo, consapevolmente o no, che il proprio stile di vita e il proprio passaporto la collocano tra chi questo collasso lo produce e non tra chi lo sta subendo di più.
Questa sensazione, seppur per molti non conscia, inquina l’orizzonte e intacca la motivazione rispetto al proprio percorso di crescita.
Sfiduciati e puniti
Su questo sfondo, la fiducia nella democrazia rappresentativa viene meno. Votare significa comunque confermare un sistema in cui non si crede più.
Non andare a votare viene liquidato dai boomers, in modo paternalistico e fastidioso, come atto di superficialità e mancanza di responsabilità civica.
Per molti giovani invece potrebbe rappresentare un rifiuto di legittimare un dispositivo che sembra impedire qualsiasi riforma concreta e permettere al sistema capitalista e alla parte più aggressiva e colonialista degli Stati di prosperare senza essere messi in discussione.
La Generazione Z, inoltre, risulta particolarmente disturbante perché, in certe sue manifestazioni sia proattive che di sottrazione, non si limita a chiedere riforme interne al modello capitalistico, ne contesta il presupposto di fondo: l’idea del sacrificio illimitato sull’altare del lavoro e del profitto per pochi.
“Rifiutarsi di funzionare”
E forse la forza di questa generazione, fragile e contraddittoria, sta proprio qui, nel rifiutarsi di ‘funzionare’ dentro questa organizzazione sociale che ha già dimostrato di essere sbagliata e disfunzionale e questo rifiuto può passare attraverso la sottrazione, il malessere psichico, l’alienazione, il bisogno diffuso di trovare una propria identità attraverso diagnosi e etichette.
La logica neoliberista, modello che ha trasformato ogni ambito dell’esistenza in un terreno di competizione individuale e di valutazione di performance, è arrivata a condizionare ogni sfera del nostro essere e agire. La pervasività dei dispositivi digitali e delle piattaforme social, e ora dell’intelligenza digitale, ha ulteriormente consolidato questo scenario, modificando i modi di pensare, percepire e relazionarsi. Eppure, proprio all’interno di questo stesso scenario, la generazione Z sembra accorgersi di questa deriva.
Il diffondersi di discorsi su salute mentale e collettività, il bisogno di mettere al centro il concetto di cura ambientale e relazionale segnalano un bisogno potente di squarciare il confine dell’individualismo. C’è il tentativo, almeno da parte di alcun3, di trasformare il disagio individuale in conflitto e in desideri condivisi.
La risposta istituzionale a questi fermenti si traduce in dispositivo punitivo e progressiva criminalizzazione di tutto ciò che riguarda non solo le proteste ma anche gli spazi e i tempi collettivi e autodeterminati.
La violenza poliziesca durante alcuni cortei per la Palestina, per l’ambiente o contro il decreto sicurezza mette in evidenza la sproporzione tra il carattere per lo più pacifico, seppur radicale, di queste manifestazioni e l’uso della forza.
La marginalizzazione e la razzializzazione dei giovani delle periferie, spesso di terza e quarta generazione, insieme a zone rosse, fogli di via e obblighi di firma, indicano il progressivo restringersi dei diritti e delle libertà.
Per una generazione che già percepisce istituzioni, governi e rappresentanze democratiche come ‘contenitori bucati’ questa risposta ha un significato devastante e alimenta l’idea che non esistano canali efficaci per incidere sul reale, che la democrazia rappresentativa sia una facciata, una liturgia vuota sotto cui agiscono interessi economici e geopolitici intoccabili.
In questo senso la generazione Z è portatrice vitale, e allo stesso tempo profondamente sofferente, di questo declino. Lo abita nel corpo e nella psiche.
È la generazione che cresce in un immaginario colonizzato dalla catastrofe, e che, proprio stando in questo punto di rottura, rende visibile ciò che non funziona più e apre, suo malgrado, lo spazio per qualcos’altro che ancora non ha nome.
Se ne percepisce la fragilità e la sofferenza, ma si possono intravedere anche forme nuove e conflittuali di stare al mondo, radicate in un tempo in cui prendere sul serio la fine e provare comunque a vivere, è già una forma di resistenza.
