Facciamo il punto in Italia
A giugno il governo presenterà le proprie indicazioni di politica industriale, raccolte nel “Libro verde Made in Italy 2025”. Se saranno mantenuti gli annunci, tra le linee di politica industriale ci sarà un ampio piano di incentivi per riconvertire pezzi del settore automotive dal civile alla difesa, o quantomeno al “dual use”. «Un cingolato muove un trattore come un blindato, così come una scheda elettronica funziona su un veicolo urbano così come su un elicottero”, ha dichiarato di recente il ministro dell’Impresa e del Made in Italy Adolfo Urso.
Il ragionamento del governo è semplice: gli ultimi dati Istat sulla produzione industriale toccano i 2 anni consecutivi di calo (26 mesi su 27 da quando è in carica Giorgia Meloni), a trascinare in basso la produzione è il settore auto. Dunque, visto che l’Europa si sta per riarmare, e abbiamo giurato alla Nato e agli Usa di arrivare almeno al 2% del Pil in spesa militare, perché non portare un settore in crisi verso un settore che “tira”? Urso lo ha detto anche all’ultimo tavolo sull’automotive di marzo, raccogliendo però parecchie perplessità. “Al di là dell’aspetto etico, non riusciamo a riconvertire il settore auto all’elettrico, come si può pensare di riconvertirlo al militare? E con quali ricadute sui posti di lavoro?”, si è chiesto Samuele Lodi, responsabile Auto Fiom-Cgil. “Non crediamo che si possa chiudere l’auto e aprire fabbriche di armi, è un modo per giustificare il non-intervento; ha aggiunto Ferdinando Uliano, segretario Fim-Cisl. Anche gli industriali sono scettici: secondo Federico Visentin, presidente di Federmeccanica, “gli spostamenti di produzione così radicali non si improvvisano”.

Una nuova direzione
Il tema però non è nuovo, e la direzione verso un’economia di guerra di parte del sistema produttivo è qualcosa che sta, almeno in parte, già avvenendo. Un anno fa a Bergamo la società di consulenza Ernst Young vi organizzò un apposito convegno invitando un centinaio di imprese del Nord Ovest. Il taglio al fondo automotive nella scorsa manovra di bilancio, con le risorse dirottate alla difesa, è stato evidentemente il primo passo. Ed anche nelle aziende qualcosa si muove. Al convegno annuale di Alleanza Clima Lavoro, associazione che raccoglie sindacato e ambientalisti nell’ottica di una riconversione ecologica condivisa, sono gli stessi delegati a raccontare che, nelle loro aziende, sta pensando al settore militare. “La mia azienda si occupa di ingegneria, è piuttosto lontana dall’ambito della difesa. Ma sta valutando investimenti in quel settore”, dice un giovane delegato. Due delegati di un’azienda che tratta metalli spiegano che già differenziano i propri committenti, che si allargheranno anche alla Difesa.
“Abbiamo piani per investire sulle armi, non sull’auto”, conferma il delegato di un’altra fabbrica metalmeccanica. Un anno fa Leonardo usciva dal capitale di Industria Italiana Autobus, unica industria pubblica a produrre uno dei mezzi fondamentali del trasporto collettivo, per spostare investimenti nell’ambito militare. Oggi Leonardo si sta espandendo, raddoppiando i suoi spazi nelle sedi di Torino e La Spezia, anche nell’ottica della nuova joint venture con la tedesca Rheinmetall. Anche perché, e questo è un altro problema, se l’industria tedesca corre verso la riconversione, le imprese italiane di subfornitura dovranno in qualche modo adeguarsi. È il caso ad esempio della Pierburg, azienda controllata di Rheinmetall, che si occupa di riduzione di emissioni nocive, valvole e pompe. Due stabilimenti, a Lanciano e Livorno, e una sede a Torino per oltre 400 dipendenti. “Facciamo le linee di produzione: potremmo doverle riadattarle a quei cambiamenti”, dice Andrea de Lutiis della Fiom Cgil di Chieti.
Al di là dell’etica, a chi conviene riarmasi, e con che ricadute sui posti di lavoro?
Uno studio realizzato per Greenpeace da vari economisti ha fatto qualche conto sul valore aggiunto creato dall’industria bellica. In Italia, una spesa di un miliardo di euro per l’acquisto di armi porta a un aumento della produzione interna di soli 741 milioni di euro, con un impatto netto sull’occupazione di circa 3 mila posti di lavoro. La spesa per la protezione ambientale in confronto porta un valore aggiunto di circa 1,9 miliardi di euro e 10000 posti di lavoro, un miliardo di spesa per istruzione e sanità generano 1,38 miliardi di euro e 16 mila posti di lavoro.
“Dall’analisi del rapporto sull’impatto economico del settore dell’European Aerospace, Security and Defence Industries emerge ad esempio che nei Paesi europei della NATO le spese in armamenti nell’ultimo decennio sono aumentate del 168%, l’aumento del numero di occupati è stato invece intorno al 30%”, rileva Gianni Alioti, della rete Pace e Disarmo. A gonfiarsi, invece, sono le tasche degli azionisti: L’indice europeo Stoxx Europe Total Market Aerospace & amp; Defence è aumentato del 125% tra febbraio 2022 e gennaio 2025, con picchi del 2505% per Leonardo, e del 400% per RheinMetall.