Il lavoro è cambiato radicalmente negli ultimi vent’anni.
Le forme di organizzazione del lavoro tradizionali erano basate su una doppia promessa: stabilità e appartenenza. I contratti garantivano regole, orari, percorsi di carriera; gli ordini professionali stabilivano identità e ambiti di competenza; i sindacati offrivano protezione, tutela e forza di contrattazione collettiva.
In cambio: meno possibilità di scegliere su cosa lavorare e come, meno intraprendenza e crescita personale. Uniformazione dei ruoli e rapporti di forza immutabili.
Nel sistema italiano tutto è ancorato a questo rigido compromesso: dalla previdenza al credito, dall’assicurazione sanitaria alla maternità. Con paradossi sempre più evidenti: un professionista autonomo che fattura 80.000 euro all’anno, genera valore e paga le tasse, per il sistema è un precario, per la banca un profilo rischioso, per il welfare non esiste.
Regole e categorie rigide non funzionano più per identità professionali che diventano più fluide, multiple e in continua ricomposizione.
In quale ordine staranno i professionisti ibridi che useranno l’AI per fare lavori eterogenei in modo trasversale e dinamico? Quale corpo intermedio è in grado di tutelare figure che lavorano per aziende diverse, con ruoli diversi, ed evolvono continuamente?
Così la nostra democrazia “fondata sul lavoro” riesce a tutelare sempre meno lavoratori, né trova più nel lavoro una leva di crescita e sviluppo.
I contratti ieri, le community oggi
Sempre di più i professionisti cercano nelle community professionali una forma di appartenenza compatibile con l’autonomia che per loro è diventata irrinunciabile.
Cosmico è un sintomo: oltre 30.000 professionisti tra esperti tech, consulenti, creativi, marketer, fractional executive cercano un’alternativa all’isolamento che li rende più fragili ed esposti.
Per appartenere a una community professionale non devi rientrare in una definizione legale codificata per legge. Devi dimostrare che sai fare bene il tuo lavoro, attraverso meccanismi trasparenti e verificabili: progetti di qualità, feedback, riconoscimento dei pari.
Un professionista può stare contemporaneamente in tante community diverse, e le membership multiple si rafforzano reciprocamente, perché ognuna valida una delle competenza necessarie a lavorare su progetti complessi. Chi cambia lavoro non perde l’identità professionale costruita negli anni, che continua a vivere nella reputazione trasversale verificabile dalla community.
Le community hanno sostituito il contratto di lavoro come fonte primaria di appartenenza professionale per una porzione crescente di chi lavora, e questa sostituzione è irreversibile perché risponde a un bisogno reale che le strutture novecentesche non possono più soddisfare.
Un nuovo laboratorio di welfare?
Appartenenza, però, non significa tutela né sicurezza. La validazione tra pari non si traduce in potere contrattuale. Quando si tratta di tutele e negoziazioni, il freelance continua a essere solo. Le community non sono soggetti giuridici riconosciuti – né dallo Stato che eroga welfare, né dalle aziende che comprano lavoro, né dalle istituzioni finanziarie che valutano il rischio creditizio.
Forse, però, hanno il potenziale per evolvere. La reputazione professionale verificabile potrebbe diventare una base legittima per accedere alle tutele: chi dimostra continuità e qualità nel lavoro accede alla protezione collettiva gestita dalla community.
Le banche guardano la busta paga, ma se la community certificasse la stabilità attraverso dati aggregati e trasparenti, l’accesso al credito cambierebbe per tutti. Lo stesso meccanismo si applicherebbe ad assicurazioni sanitarie integrative, fondi pensione, protezione per periodi di malattia o mancanza temporanea di progetti.
Le community hanno dimostrato di saper garantire autonomia e appartenenza. Vale la pena testare se possano fare il salto successivo: diventare soggetti che rappresentano chi non rientra in una categoria stabile, costruiscono tutele compatibili con il lavoro frammentato, sviluppano potere contrattuale senza replicare le rigidità delle strutture novecentesche.
Piattaforme private e Stati non stanno risolvendo questo problema e probabilmente non lo risolveranno perché hanno incentivi strutturali diversi. Chi lavora in modo fluido può aspettare decenni che qualcun altro trovi la soluzione perfetta, oppure può iniziare a costruirla dal basso attraverso una sperimentazione distribuita. Le community esistono già e funzionano: resta da capire se possono diventare il nucleo di una nuova società, ancora fondata sul lavoro.
