Difesa e welfare non sono nemici. L’Europa deve prepararsi


Emanuela Colaci Emanuela Colaci
Roberto Arditti Roberto Arditti
Articolo tratto dal N. 33 di Troviamo pace Immagine copertina della newsletter

Siamo nel pieno di un futuro dominato dagli “scenari di guerra”? Cosa dobbiamo aspettarci?  

Roberto Arditti: Questa settimana, a Riad, l’Arabia Saudita ha acquistato armamenti dagli Stati Uniti per un valore di 142 miliardi di dollari. La spesa militare italiana, per un intero anno, è 70 miliardi: in un pomeriggio l’Arabia Saudita ha acquistato quello che l’Italia spende in armi in due anni. Eppure, gli Stati Uniti continuano a non vendere all’Arabia Saudita l’F-35, il loro aereo da combattimento più avanzato. È stato Joe Biden a escluderlo dalle trattative: un segnale chiaro su chi può accedere alla tecnologia militare avanzata. Il mondo che abbiamo davanti oggi è uno in cui la guerra (o la sua minaccia) orienta scelte economiche, investimenti pubblici, alleanze. E chi resta fuori da questo gioco — o finge di ignorarlo — rischia di non avere voce.  La lettura che vede nella pace la condizione normale delle relazioni internazionali e dell’umanità non è coerente con i segnali che vengono dalla storia, né particolarmente condivisa a livello internazionale, fuori dall’Europa. Dobbiamo sapere che l’esercizio del potere usa gli strumenti militari e quelli economici innanzitutto. Tutto il resto è un altro innamoramento europeo, in particolare del ruolo del soft power o sharp power: diplomazia, cultura, cinema. Prima ce ne rendiamo conto, noi in Europa, meglio è.

Joe Biden e Kamala Harris
Presidente Joe Biden e Kamala Harris

A proposito di soft power: negli ultimi 30 anni abbiamo sperimentato il fallimento della diplomazia multilaterale e un declino del ruolo dell’Onu. 
Possiamo prevedere un ritorno della diplomazia che faccia tacere le armi e i cannoni?  

Roberto Arditti: È un’interessante prospettiva, vorrebbe però dire che le organizzazioni multilaterali delle Nazioni Unite, come il Consiglio di Sicurezza, dovrebbero cambiare modus operandi. Negli equilibri internazionali di oggi, la probabilità che Russia e Cina si mettano insieme da una parte opposta all’occidente è quasi del 100%. In questo schema, è difficile che quel foro riesca a intervenire in modo efficace nelle situazioni di conflitto o prevenirlo. I disequilibri funzionano, rendono. Hanno mille rivoli che ricadono con vantaggi in termini di potere, di soldi. Non dobbiamo pensare che le forze in campo nelle relazioni internazionali cerchino l’equilibrio perfetto, la pace e la tranquillità. Il mondo e l’economia soffrono se c’è un contesto di guerra assoluta, collettiva. Ma un po’ di tensione è funzionale al sistema.  

Nel dibattito internazionale, si parla del riacutizzarsi dei problemi lasciati in sospeso dalla II guerra mondiale. Cosa ne pensa di questa analisi? Quali sono i problemi che non abbiamo mai risolto sul piano geopolitico?

Roberto Arditti: Il peggiore nemico del bene è il meglio. Nel senso che si può sempre fare meglio. Però se si parte dal presupposto che bisogna fare meglio non si va lontano. Il mondo che esce dalla Seconda guerra mondiale riesce per un periodo significativo a gestire le tensioni, pagando dei prezzi altissimi ma con un suo equilibrio che ha retto per un tempo significativo. Per oltre quarant’anni, le democrazie occidentali hanno scelto di ignorare quanto accadeva all’interno dell’Unione Sovietica e nei suoi paesi satellite. L’URSS di Stalin, legittimamente seduta al tavolo dei vincitori della Seconda guerra mondiale, fu accettata come parte integrante del nuovo ordine globale. Tuttavia, ciò comportò una rimozione collettiva: si fece finta di non vedere le profonde differenze tra la vita nella Germania Est e quella nella Germania Ovest.

Gli assetti post-bellici del 1945-1946, pur tra evidenti limiti, rappresentano un compromesso storico di alto livello, difficile da migliorare nel contesto dell’epoca. Tuttavia, in alcune aree del mondo, come il Medio Oriente e l’Africa, i confini tracciati secondo logiche coloniali hanno ignorato la composizione reale dei popoli. È emblematico il caso dei curdi, suddivisi tra Siria, Iraq e Turchia senza mai ottenere un’entità statale propria. Questa frammentazione ha comportato, per decenni, repressioni sistematiche da parte di tutti gli Stati in cui vivono. La questione curda resta uno dei nodi irrisolti dell’ordine internazionale.

Parliamo di Europa: si può costruire una difesa europea? In che modo?E in un modo più specifico come si possono bilanciare, secondo lei, i principi dei padri fondatori della comunità, solidarietà e pace, con le necessità di un posizionamento in un mondo sempre più armato?  

Roberto Arditti: L’Europa oggi non è in grado di sostenere delle azioni militari complesse e questo la rende particolarmente vulnerabile anche sul piano politico ed economico, perché in realtà ormai è costretta a confrontarsi con più soggetti che, invece, sono in grado di farlo. Non significa che lo faranno contro di noi, ma sono in grado di farlo. Credo però che l’Europa debba immaginare il suo percorso di irrobustimento militare, che è un grande strumento di relazioni internazionali, esclusivamente dentro l’Alleanza Atlantica, che è la più seria opzione che i paesi democratici hanno a disposizione per mettere insieme le loro energie. In altre parole, faremmo bene noi europei ad allargare l’orizzonte del mondo. Argentina, Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda sono tutti paesi che stanno stringendo accordi operativi con la NATO, tant’è vero che la più grande esercitazione navale mai organizzata dalla NATO negli ultimi decenni si è fatta a largo delle corse australiane, perché i paesi dell’Indo-Pacifico sanno che quello è il teatro geopolitico più importante del mondo oggi. Che cos’è questo assetto se non la NATO del futuro? L’idea di costruire un percorso di raccordo militare europeo dentro la NATO è un’idea straordinaria e deve essere attuata, peraltro essendo il suo quartiere generale a Bruxelles. 

Sul tema dello stanziamento da 800 miliardi per il piano ReArm Europe, si è aperta la contesa sulla sottrazione di fondi allo “stato sociale”.
Quali sono le ragioni del riarmo e c’è una strada alternativa al taglio del welfare?   

L’Europa sostiene circa la metà della spesa sociale globale, sia in termini pro capite che assoluti. È una scelta essenziale: il welfare è l’infrastruttura essenziale per una società complessa e in rapido invecchiamento. Non bisogna però dimenticare che investire in difesa e sicurezza vuol dire generare lavoro, oltre a garantire la sicurezza nazionale, sia nella versione della nazione singola che nella nazione con le sue alleanze, come quella dell’Unione Europea e quella allargata dell’Alleanza Atlantica e degli altri paesi che ci sono amici. Le spese in difesa e sicurezza sono un modo per far lavorare l’industria nazionale e anche degli altri paesi. Quindi è dentro quel lavoro dell’industria nazionale c’è poi la generazione di una fiscalità che, una volta generata, ritorna nella disponibilità dello Stato per tutte le cose che deve fare, compresso il welfare. C’è anche una funzione di difesa e sicurezza che influenza anche i titoli del debito pubblico e la loro capacità di reggere il mercato internazionale dei titoli. Non metterei in maniera rigida in contrapposizione gli investimenti in difesa e sicurezza con la spesa per il welfare. Comprendo che questa sia una dinamica ricorrente nel dibattito politico, e non me ne sorprendo. Tuttavia, è importante ricordare che una nazione priva di mezzi di difesa, come i carri armati, rischia col tempo di pagare un prezzo alto per questa scelta e pentirsene. Durante una missione come funzionario fiorentino, Machiavelli segnalò l’urgenza di contrastare bande armate che saccheggiavano tra Lazio e Toscana, guidate anche da parenti di Cesare Borgia. Propose di costituire un esercito pubblico, ma le sue richieste furono ignorate. Firenze lo rimosse dall’incarico e lo screditò. Negli anni successivi, le milizie conquistarono proprio quei territori che aveva indicato come minacciati. È un esempio storico del principio si vis pacem, para bellum: la pace si difende preparando la guerra.

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