Capitalismo di sangue

approfondimento

 


Articolo tratto dal N. 33 di Troviamo pace Immagine copertina della newsletter

Pubblichiamo un estratto del libro Capitalismo di sangue (Laterza Editori, 2024) di Fabio Armao, per gentile concessione dell’autore e dell’Editore.

«Un attentato alla verità»

  1. pp 41-43  

Il problema della guerra, di qualunque guerra, è che più e prima ancora delle leggi silenzia il linguaggio, diventa «un attentato alla verità» – come afferma lo scrittore senegalese Mohamed Mbougar Sarr nella citazione riportata in epigrafe. E non si tratta soltanto di dover fare i conti con le opposte propagande che ciascun belligerante somministra alla propria opinione pubblica e al mondo esterno, nascondendo o alterando i dati (sui combattenti, sulle perdite, sul consenso), riscrivendo la storia in modo da giustificare i propri misfatti. Il problema è che qualunque guerra obbliga anche chi non vi è direttamente coinvolto a schierarsi, riducendo i termini del dibattito alla classica dicotomia amico-nemico. Annulla ogni distanza tra gli eventi e chi li osserva rendendo impossibile una messa a fuoco, al punto da costringere a far propria, in maniera del tutto acritica, la posizione di uno dei contendenti: l’amico ha sempre ragione, il nemico ha sempre torto.  

«Abbandonare il campo»

Per sottrarsi a questo dilemma, l’unica soluzione sembra essere «abbandonare il campo», adottando la prospettiva pacifista di chi afferma che la guerra è sempre un male, a prescindere dalle cause e dal contesto.  

In questi frangenti, restituire un senso alle parole e una sintassi al linguaggio diventa una missione imprescindibile, in particolare per le scienze sociali che, per statuto disciplinare, hanno il compito di (provare a) spiegare i comportamenti umani. Allora, per cercare di interpretare il conflitto in corso in Ucraina, ripartiamo dai fondamentali, per così dire.  

La guerra, ce l’ha insegnato due secoli or sono il generale prussiano von Clausewitz, è uno strumento della politica che, sola, ne determina lo scopo, la logica. È il sistema politico, il governo che ne assume la direzione, a servirsene nel tentativo di abbattere l’avversario, di costringerlo a sottomettersi alla propria volontà. In termini più prosaici, potremmo dire che la guerra, come la gotta, è la «malattia dei re», uno spreco di risorse collettive consentito soltanto a chi ha il potere di dotarsi di armamenti più o meno sofisticati e di discutere delle quote di bilancio da destinare alle forze armate, almeno finché si ha un bilancio a cui attingere. La guerra ha sempre avuto una connotazione di classe, in fin dei conti: chi ha più soldi e governa sa come costruirsi una giusta causa e dove trovare, oltre alle armi, anche i soldati disposti a perorarla a rischio della propria vita. A tutti gli altri non rimane che subirla, la guerra, o cercare di sfuggirle migrando.  

 

La necessità di tornare a riempire le piazze 

Ma torniamo a toni un po’ più accademici. Una delle questioni dirimenti e, infatti, più dibattuta riguarda la giustificabilità della guerra: se e a quali condizioni essa possa definirsi legittima. In estrema sintesi, si possono distinguere tre posizioni: etica, giuridica e politica. Nelle fila di chi rivendica una posizione etica – se si escludono i teorici della guerra come igiene del mondo e i combattenti che si lasciano sedurre dalla pornografia della violenza delle battaglie – militano per lo più gli appena evocati pacifisti, per i quali la guerra è un male assoluto e, come tale, va impedita o fermata a ogni costo.  

Il problema è che il pacifismo rischia di rivelarsi inefficace o addirittura controproducente a meno di non adottarne una visione attiva e militante basata sull’adozione di tecniche non violente di resistenza civile, a volte altrettanto rischiose: dalla disobbedienza al boicottaggio, dalla protesta al sabotaggio.  

Se ne stanno facendo stupendi interpreti i giovani nelle piazze di Mosca o di San Pietroburgo e le donne che manifestano togliendosi il velo nelle città dell’Iran, pagando costi altissimi.  

Diverso è pretendere di rimanere equidistanti, equiparare le motivazioni dei belligeranti, cercare alibi nelle guerre precedenti (combattute magari con pari efferatezza da coloro che adesso stigmatizzano come aggressore uno dei contendenti).  

In tal caso ci si trova di fronte a una forma di pacifismo retorico, un puro esercizio di stile (talvolta, ma soltanto nei casi più autentici e sinceri, una professione di fede) che, suggerendo l’astensione da qualunque intromissione nel conflitto, favorisce  

di fatto chi dispone di maggiori risorse e, di conseguenza, è presumibile sia l’aggressore piuttosto che l’aggredito. 

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