Il lavoro non è mai stato così centrale nelle nostre vite, e allo stesso tempo così invadente. Nell’estratto che segue (pp 35-36), Silvia Zanella mostra come l’idea di identificarci totalmente con il nostro ruolo professionale sia diventata insostenibile, soprattutto dopo la pandemia, quando il confine tra vita privata e lavoro è definitivamente esploso. Burnout, smarrimento, ma anche nuove possibilità di libertà: tutto nasce da un cambiamento profondo nella natura stessa del lavoro.
L’idea che il lavoro costituisca un mezzo di realizzazione personale è un paradigma ampiamente accettato, radicato in noi prima ancora del nostro ingresso nel mondo lavorativo e che si manifesta in un senso di identificazione con il nostro “io professionale” indipendentemente dal nostro ruolo occupazionale.
Questo concetto persiste nonostante le profonde trasformazioni del lavoro, e diventa ancora più complesso da gestire stante le sue esondazioni nell’identità privata. Se negli ultimi tempi ci sentiamo sopraffatti, se fatichiamo a mettere ordine tra nostre le priorità private e professionali, se non riusciamo a trovare un senso a quel che facciamo otto (o più) ore al giorno, c’è un motivo. Ma anche se siamo euforici, se sperimentiamo una libertà mai vista prima, se adesso ci è cristallino cosa ci piace fare e cosa no, c’è un motivo.
Se infine gestiamo un team, o un’intera organizzazione, e non sappiamo se mettere la retromarcia o spingere forte il pedale dell’innovazione, anche per questo c’è un motivo. Il motivo è che il lavoro è cambiato, in maniera radicale: il lavoro è diventato sconfinato ed è entrato prepotentemente in competizione per prenderci non solo i nostri tempi e i nostri spazi, ma anche le nostre priorità.
La pandemia è stata la cartina al tornasole. Che il lavoro fosse diventato troppo invadente rispetto al nostro privato e che al tempo stesso tentasse di soffocare ogni nostro moto di autonomia era chiarissimo ben prima del 2020. Ma la tempesta perfetta di emergenza sanitaria, crisi economica mondiale, conflitti inimmaginabili ha spinto moltissime persone a chiedersi se fosse veramente quella l’esistenza che volevano condurre: guidando ore nel traffico, o stando ammassati
in metropolitana tutti i giorni tutti insieme alla stessa ora, vedendo i figli o il cane alle otto di sera, trascurando la propria salute e in totale distonia con quello che stava succedendo nell’intero pianeta. Con un malessere crescente, specie in presenza di un capo controllante, poche opportunità di crescita, zero formazione, una busta paga leggera.
Un primo pensiero che fa male, quindi, è pensare che noi equivaliamo al nostro ruolo all’interno dell’azienda o del mercato del lavoro. Ma tu non sei il tuo lavoro. Letteralmente. E questa è una buona notizia, sia per te che per chi lavora con te. Innanzitutto, significa togliere di mezzo un’equazione che risulta molto onerosa da sopportare nel quotidiano. Ovvero che il nostro valore sia direttamente ed esclusivamente commisurabile a cosa c’è scritto in calce alle nostre email o nel biglietto da visita, o a quanto dichiaravamo all’ufficio anagrafe quando rinnovavamo la carta di identità.
Ognuno di noi è caratterizzato da tanti tratti distintivi e ruoli: oltre a quello strettamente professionale, siamo anche figlie, padri, sorelle, nonni, volontari alla biblioteca scolastica, appassionati di gin, collezioniste di giochi da costruzione, cinefili, migliori amici, mentori, affetti da una patologia invalidante, caregiver, con un dato orientamento sessuale, atei o catechisti, nativi o stranieri, vecchi o giovani. Se non si considerano le persone a tutto tondo si possono solo prospettare grandi perdite, a livello soggettivo e sul piano aziendale. Le parole non ci aiutano, perché segmentano una realtà, quella del lavoro, in definizioni perentorie che non ci appartengono, o che ci appartengono solo in parte. O che, in alcuni casi, sono fuori tempo massimo. E l’incasellamento in una targhetta fuori dall’ufficio o in un rettangolino dell’organigramma davvero non basta più a determinare chi siamo.
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