Se c’è qualcosa che la massiccia presenza del movimento studentesco nelle mobilitazioni per la Palestina ha dimostrato, è che non è affatto vero che i giovani oggi si disinteressano della politica. La loro disaffezione si rivolge piuttosto verso i partiti tradizionali e le istituzioni, come mostrano bene le elezioni politiche del 2022, in cui il 40% dei giovani tra i 18 e i 34 anni ha scelto di non votare.
Ma non si tratta di semplice astensionismo. È un rifiuto verso un sistema che non rappresenta più le voci delle nuove generazioni, che preferiscono discutere di temi politici altrove, ad esempio sui social media.
Secondo il Sole 24 Ore, il 42% dei cittadini europei tra i 16 e i 30 anni di età utilizza oggi i social media come principale fonte di informazione e, per molti, immaginare un mondo senza fiumi di notizie che scorrono veloci da una piattaforma all’altra è pressoché impossibile.
Tuttavia, a partire dall’insediamento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, è diventato ancora più evidente che nessuna delle piattaforme digitali che utilizziamo è neutra, ovvero priva di ideologie politiche. Al contrario, l’élite della Silicon Valley sembra aver scommesso sulla presidenza Trump per potersi finalmente liberare delle “scocciature” etiche e continuare a produrre tecnologia al riparo da ogni forma di regolamentazione.

Identità polarizzate
Gli ambienti digitali non si limitano a fungere da semplice contenitore delle idee politiche che circolano al loro interno, ma le modellano, le amplificano oppure, quando sono ritenute scomode, le silenziano.
Le decisioni algoritmiche, la moderazione e le regole implicite che muovono i contenuti digitali creano cornici di senso, linguaggi di appartenenza e identità politiche.
Si tratta di identità che oggi si muovono sempre di più su binari polarizzanti. La logica che comanda è una sola: produrre quantità enormi di dati affinché la macchina del capitalismo digitale rimanga sempre ben oliata, non importa a quale costo.
In questo contesto si muove anche la negoziazione delle identità di genere, oggi sempre più presenti all’interno di agende politiche che rimangono agli antipodi: da un lato il femminile sovversivo e le identità queer nel femminismo intersezionale, e dall’altro le identità di genere tradizionali nelle politiche conservatrici dell’estrema destra.
Ma all’interno di spazi sempre più chiaramente allineati con le agende reazionarie non tutte le voci emergono allo stesso modo: ad alcune è concesso molto più spazio rispetto ad altre.
È su questo sfondo che prendono forma fenomeni come gli incel, i sigma, le tradwife, le donne mantenute e altre comunità digitali ed estetiche nate alle periferie di Internet, che oggi spopolano sui social media sotto forma di novità, macinando milioni di visualizzazioni, commenti e interazioni.

Violenza digitale in aumento
Non è un caso che la violenza digitale nei confronti di donne e comunità marginalizzate sia in aumento. Lo spazio riservato alle voci che si oppongono a un sistema dominante sempre più repressivo e intollerante continua ad assottigliarsi.
Intanto, i contenuti d’odio si moltiplicano, spinti anche da tecnologie emergenti come l’intelligenza artificiale che rendono più facile creare, replicare e diffondere attacchi personalizzati.
Dal femminismo al pacifismo, passando per l’ambiente, l’antirazzismo e la Palestina, gli attacchi alla cultura ‘woke’ sono all’ordine del giorno sui social media, trasformati in meme, video virali e dirette che diventano imitabili, vendibili e monetizzabili da migliaia di creators.
L’odio diventa un gioco: un gioco in cui prevale chi grida più forte con il coraggio di dire finalmente “le cose come stanno”, ma soprattutto un gioco in cui a vincere rimane sempre il monopolio tecnologico delle grandi piattaforme.

Che spazio rimane per l’attivismo digitale?
All’interno di questa cornice, le forme di partecipazione digitale vivono in una tensione costante tra immaginazione e sorveglianza, tra individualismo e collettività, tra l’urgenza di creare contronarrazioni e il soffocamento delle rivendicazioni. Da una parte, le grandi manifestazioni e proteste si servono dei social media per raggiungere un pubblico più ampio; dall’altra, l’attivismo digitale si ritrova a dover negoziare la propria esistenza con le logiche commerciali delle piattaforme e con le loro ambivalenze, muovendosi in uno spazio che è al tempo stesso strumento di mobilitazione e terreno di controllo.
Le culture della perfezione, la misoginia digitale e la superficialità dell’indignazione social – alimentate da like, commenti e algoritmi di visibilità – rischiano di creare vicoli ciechi per l’attivismo, paralizzando la capacità di costruire ponti e costringendo gli individui a una minuziosa sorveglianza della propria espressione, fino all’autocensura preventiva.
Nel mio libro Internet non è un posto per femmine, in uscita per Einaudi il 13 gennaio, affronto molte di queste tematiche a partire da una certezza: che i movimenti sociali – in particolare il femminismo – non possano fare a meno del digitale e che, pertanto, la lotta per la liberazione degli spazi digitali debba essere posta al cuore delle agende politiche intersezionali.
Gli ambienti digitali non sono soltanto il luogo in cui i giovani oggi si esprimono, ma anche lo spazio in cui vengono messi alla prova come cittadini e in cui si testano desideri, antagonismi e immaginari politici. Negli stessi spazi di conflitto e cancellazione si sperimentano anche gesti di cura collettiva e di solidarietà. È qui che oggi si gioca una parte decisiva del futuro democratico, ed è da qui che dobbiamo ripartire.
