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Il golpe cileno. Echi e risonanze che ancora ci interrogano


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In queste ultime settimane, a distanza di cinquant’anni da quell’11 settembre 1973 che ha segnato il Novecento latino-americano – con echi e ricadute che sono andati molto più distanti dei confini del Sudamerica – sono state registrate due operazioni:

  • la richiesta, da parte del presidente del Cile Gabriel Boric, di avviare un piano nazionale per ritrovare e identificare i desaparecidos della dittatura di Augusto Pinochet;
  • la desecretazione, da parte di Washington, di alcuni rapporti allora ricevuti da Richard Nixon nelle ore precedenti al golpe contro Salvador Allende, dall’altro.

Due eventi, questi, che sembrano stare insieme, sembrano parlarsi, ma probabilmente l’unica cosa che hanno in comune è il fatto di avere come punto d’origine il medesimo evento storico: lo stesso anniversario di una memoria non pacificata che continua a interrogare il nostro presente.

La ricorrenza del golpe militare diviene allora un pretesto che, oltre a parlare a comunità diverse, risponde a esigenze e fini altrettanto differenti.

Il golpe cileno

Prendiamo il primo di questi interventi, stiamo in Cile.

La richiesta di indagare sulle storie dei desaparecidos – il varo di un decreto volto a cercare la verità – per certi versi ci può ricordare che alcuni eventi della storia rimangono, di fatto, ferite. In quanto tali, al limite, possono trasformarsi in cicatrici, lasciando dei segni con cui è necessario sempre fare i conti. Per altri, ci ricorda, anche, come tutti i processi di guarigione abbiano bisogno di tempi fisiologici.

Quello che sta avvenendo in Cile indica che il processo di recupero di queste verità – il processo di riapertura di quella ferita rimarginata in fretta – difficilmente può essere condotto dalle generazioni che hanno assistito al crollo di un sistema politico, come è stato quello della dittatura di Pinochet.

Democrazia: memoria e futuro

Potremmo aspettarcelo, potremmo desiderarlo, ma difficilmente può essere un compito assolvibile da quelle persone. Semmai, è un compito che può essere perseguito da quella prima generazione che davvero è nata e cresciuta in libertà, in un contesto allora diverso. Così, d’altra parte, è stato anche in Europa con la Repubblica Federale Tedesca nel fare i conti con l’eredità nazionalsocialista – tra anni ’60 e anni ’70 – e, più tardi, con la Spagna post-franchista (se pensiamo alla Ley de memoria Historica approvata nel dicembre 2007).

“Ho la convinzione – ha detto Boric, la settimana scorsa – che la democrazia è memoria e futuro, e non può esistere l’una senza l’altro”.

Ma se la democrazia è memoria e futuro assieme, allora il tema è tornare a riaprire quelle ferite e dare voce a quelle storie che, a lungo, anche all’indomani del ritorno della democrazia, si è preferito non raccontare perché l’obiettivo era «voltare pagina». Se nella scala delle priorità, allora, c’è lo spazio per riaprire quelle ferite e provare a fare i conti con la ricerca di verità, o per meglio dire di giustizia, è perché una generazione ha saputo voltare pagina e quella successiva, almeno per il momento, si trova al sicuro.

Il ruolo degli USA nel golpe cileno

Spostiamoci ora negli Stati Uniti e guardiamo al secondo di questi avvenimenti.

Tentare di fare i conti con il proprio passato, anche negli aspetti più controversi e complicati della propria storia, talvolta significa affrontare anche i non detti del proprio tempo, che talvolta dicono di preoccupazioni sulla tenuta democratica futura del proprio sistema politico.

Quando il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha avviato la pratica di desecretazione dei documenti relativi all’amministrazione americana e il successo del golpe di Pinochet, ha dichiarato che ciò che sembra emergere da quei dossier, prima ancora dell’intervento e del sostegno al golpe da parte della CIA, è la non necessità di quell’intervento (almeno stando ai rapporti che l’ambasciatore americano, in quel tempo in carica a Santiago, aveva inviato all’amministrazione americana). Ciò che emerge, allora, è contemporaneamente una non-novità accompagnata da una paura profonda.

Posizione attiva

La non-novità consiste nel ruolo attivo dell’amministrazione statunitense nel successo del Golpe. Sulla consapevolezza nell’opinione pubblica americana di quel ruolo, prima ancora dei dossier di controinchiesta, è sufficiente ricordare l’impatto segnato da un film come Missing (1982).

Ma la paura profonda ci dice invece da che cosa è mossa quell’operazione: non si tratta di rievocare una scena imbarazzante di cinquant’anni fa – di quella sapevamo pressoché tutto – ma di mettere la propria opinione pubblica in guardia, perché la crisi che anticipa quella scena, non quelle scelte dell’amministrazione, parla alla crisi degli Stati Uniti di ora, nel 2023.

In questo senso, l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 rappresenta il punto più basso di una democrazia comunque non in discussione, o il punto iniziale di qualcosa d’altro?

Il contesto italiano

C’è però un terzo spazio nel racconto di queste vicende, che è quello nostro, del contesto nazionale italiano che riceve la notizia – certamente non isolato dal contesto europeo e globale.

Le settimane in cui leggiamo di questi avvenimenti sono pressoché le stesse in cui il dibattito nei media nazionali è agitato dalle dichiarazioni di Giuliano Amato sulla strage di Ustica. Pochi mesi fa, invece, a riattivare l’opinione pubblica attorno a eventi di un passato non pacificato (ma che comunque può poggiarsi su verità giudiziarie) sono stati i dibattiti attorno alle stragi di Bologna e di Piazza della Loggia.

Si tratta di eventi certamente molto distanti tra loro, che tantomeno non sono tenuti insieme da nessi causali. Tuttavia, guardandoli insieme, forse ci possono dire qualcosa di più sulle paure che stiamo affrontando da un punto di vista sempre più ampio, transnazionale, e con le quali dobbiamo fare i conti.

Le nostre seconde generazioni, quelli nati dopo quel 27 giugno 1980, allora, che cosa chiedono di sapere? Oppure, più semplicemente, in un clima di progressiva, profonda e diffusa antipolitica, non vogliono sapere niente perché tutto è uguale? Non si è scaldato il dibattito in Italia né si sono espresse (almeno fino a che scriviamo queste righe) espressioni o realtà che vogliono «saperne di più» al di fuori delle ormai consolidate associazioni dei familiari delle vittime. Perché?

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