Approfondimenti

Storie di ordinaria violenza di Stato


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La storia di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni morto il 22 ottobre 2009 a causa delle percosse ricevute dagli agenti dei Carabinieri che lo avevano in custodia, ucciso mentre era “nelle mani dello Stato”, è una storia di violenze, depistaggi, occultamenti delle prove da parte delle forze dell’ordine. In questa storia i colpevoli non sono «poche mele marce», come ebbe a dire Achille Serra, ex vicecapo della polizia di Stato, in riferimento alle violenze perpetrate a Verona da alcuni agenti della squadra volanti tra il luglio 2022 e il marzo 2023. Un’espressione spesso utilizzata anche in riferimento al caso Cucchi nonostante in questo, come in altri, si riscontrasse una complicità diffusa che è arrivata sino ai vertici dell’Arma dei Carabinieri di Roma nel tentativo di depistare le indagini.

La storia di Stefano Cucchi non è “una” storia, ma una storia tra molte che è divenuta la storia perché denuncia, mettendo sotto gli occhi di tutti, un problema troppo a lungo sottaciuto: quello delle violenze e degli abusi da parte delle forze dell’ordine in Italia. Cucchi, infatti, non è l’unica vittima: Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Magherini, solamente per citarne alcuni.

La storia di Stefano Cucchi è, quindi, la punta di un iceberg: una storia che conosciamo a differenza di molte altre che ancora non conosciamo – e che forse mai conosceremo. Ma che possiamo contestualizzare individuando anche una serie di problematiche di medio periodo che caratterizzano le forze dell’ordine e l’ordine pubblico in Italia e che oggi vediamo in particolare modo nel ddl Sicurezza, attualmente all’esame in Senato e approvato in prima lettura alla Camera. Difatti, il provvedimento di iniziativa governativa rafforzerebbe gli aspetti repressivi dell’ordine pubblico, anche perché la concezione che soggiace al disegno di legge dipende fortemente dall’indirizzo ideologico dell’attuale governo. Al riguardo Ilaria Cucchi, senatrice e sorella di Stefano, sentita da Fondazione Feltrinelli per questo articolo, ha sottolineato come «la questione non si limita al ddl Sicurezza, ma a un processo ben più ampio in cui l’azione della maggioranza ha fatto sì che gli apparati dello Stato rispondessero sempre di più alla logica del securitarismo e del populismo penale».

Dubbi sul ddl Sicurezza sono stati espressi anche dalla docente di diritto costituzionale dell’Università di Torino Alessandra Algostino durante le audizioni parlamentari sul provvedimento. Secondo la docente il provvedimento sarebbe «criminalizzante nei confronti del dissenso» e contrasterebbe «con l’essenza profonda della democrazia e con l’esercizio dei diritti costituzionali». Basti qui pensare che certe forme di manifestazione, come il blocco stradale o l’occupazione di un immobile, potrebbero diventare reati. E ad essere colpiti sarebbero soprattutto i marginali, come altri giuristi hanno sottolineato nelle audizioni: i poveri, i senza dimora, gli stranieri. Sotto questo punto di vista, il ddl Sicurezza estremizzerebbe il ricorso all’approccio repressivo e penalistico che contraddistingue la gestione questioni sociali complesse introducendo ventiquattro nuove fattispecie di reato. Si tratterebbe di una «profonda debolezza», come ha detto la senatrice Cucchi a Fondazione Feltrinelli, che

«si rispecchia nelle disumane condizioni delle nostre celle e, anche al di fuori degli istituti di pena, nelle tante e inopportune mancanze che si registrano in tutti quei servizi di supporto e di cura democratica dai quali, parallelamente, lo Stato si sta ritirando».

Chi sbaglia «ne paga le conseguenze»: torture e violenze

Quella delle violenze commesse dalle forze dell’ordine, anche con il ricorso alla tortura, è una storia lunga. Già il socialista Lelio Basso nel suo volume La tortura oggi in Italia del 1953 denunciava l’ampio ricorso alla violenza, sottolineando come fosse una prassi consolidata sin dagli anni Quaranta. Consolidata e transitata sino ai giorni nostri, come dimostrano diversi casi recenti, tra cui la già citata storia di Verona. Violenze ampiamente denunciate negli anni Ottanta e Novanta da diversi report di Amnesty International, parte di un ricorso alla tortura e agli interrogatori violenti talvolta avallato dal ministero dell’Interno – è il caso delle torture subite da alcuni membri delle Brigate Rosse durante le indagini sul sequestro del generale statunitense James Lee Dozier.

Il ricorso alle violenze e alle torture sembra essere quindi una prassi tollerata (se non sostenuta) da parte dai vertici delle forze dell’ordine e della classe politica. Dopo la sentenza del 2015 della Corte Europea sulle violenze del G8 di Genova – sentenza che portò all’introduzione del reato di tortura in Italia nel 2017 – il leader della Lega, attuale Vicepremier e ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini affermò, nel corso di una manifestazione assieme al Sindacato autonomo di polizia (Sap), che «per qualcuno che ha sbagliato non devono pagare tutti. Carabinieri e polizia devono poter fare il loro lavoro. Se devo prendere per il collo un delinquente, lo prendo. Se cade e si sbuccia un ginocchio, sono cazzi suoi». L’anno seguente il dirigente della Polizia postale dell’Emilia-Romagna Geo Ceccaroli twittò: «Ho catturato un Pokémon!!! Se non lo rilascio in fretta rischio di essere condannato per il reato di tortura?!?!». Mentre nel 2018 la leader di Fratelli d’Italia e attuale Presidente del Consiglio Giorgia Meloni twittò – e poi rimosse – «il reato di tortura impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro».

La visione espressa da questi virgolettati rimanda ad una potenziale relazione pericolosa tra parte della classe politica e forze dell’ordine che potrebbe portare ad una politicizzazione di queste ultime. Che esista una sovrapposizione ideologica e di intenti è dimostrato anche dall’elezione nelle file della Lega, durante la scorsa legislatura, di Gianni Tonelli, ex Segretario generale del sindacato di polizia Sap che nel 2014 dichiarò, in riferimento al caso Cucchi

«in questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze».

Scelbismo e sovrapposizione ideologica

Quella della sovrapposizione ideologica è anch’essa una storia lunga che riguarda le scelte di alcuni governi nell’immediato dopoguerra che hanno avuto come conseguenza quella di mantenere una parziale continuità con lo Stato fascista: il Codice penale, infatti, pur se con diverse modifiche risale al 1930, mentre la legge di polizia, il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (TULPS), venne adottato nel 1931. Tra queste scelte vi fu anche la decisione del più volte ministro degli Interni democristiano Mario Scelba di interrompere il processo di epurazione delle forze dell’ordine reintegrando il personale fascista e appoggiando l’allontanamento del personale proveniente dalla Resistenza. La ristrutturazione sostenuta da Scelba ebbe come conseguenza la dipendenza dal potere politico per la concezione dell’ordine pubblico e la sua definizione in maniera repressiva e incentrata sull’individuazione di un nemico interno, spesso identificato con le frange operaiste e di sinistra, facendo così transitare parte delle precedenti concezioni autoritarie in materia di ordine pubblico nella Repubblica. Ne nacque una polizia a statuto militare e non civile, uniforme e compatta, fedele al governo e concepita come strumento per reprimere i fermenti politici e sociali, affiancata dall’Arma dei Carabinieri: un corpo militare che ha anche funzioni di pubblica sicurezza.

Mario Scelba
Mario Scelba

Una polizia militarizzata

Nel 1981 venne approvata una riforma che sancì il passaggio della polizia da militare a civile. La riforma non ha però previsto di riformare l’ordine pubblico, né di risolvere pienamente la questione della preminenza militare sulle forze dell’ordine, anche perché negli arruolamenti degli agenti si è mantenuta una corsia preferenziale per coloro che hanno un percorso militare alle spalle. La riforma del 1981, inoltre, non ha inciso particolarmente sul sapere di polizia – l’insieme di conoscenze, pratiche e così via che strutturano l’immagine delle forze dell’ordine e la loro percezione della realtà esterna – che è rimasto ancorato ad una mentalità e a pratiche di tipo militare e spesso frutto di una visione su certe classi sociali e politiche ritenute come ostili. Si tratta di un aspetto da non sottovalutare. La differenza fondamentale tra forze dell’ordine ed esercito è che la prima interviene in un contesto inter pares, di cittadini, motivo per cui l’uso della forza deve essere un’extrema ratio. Una polizia militarizzata, invece, ha una visione simile a quella delle forze armate: percepisce la realtà esterna come ostile, ragione per cui il ricorso alla forza è facilitato.

Violenze e depistaggi in caserma

Alla luce di ciò che abbiamo detto risulterà utile guardare anche alle storie di depistaggi e violenze che hanno colpito alcuni militari durante gli addestramenti. I casi sono diversi, a partire da quello di Emanuele Scieri, paracadutista della Folgore in servizio di leva obbligatoria trovato morto all’età di ventisei anni nella caserma di Pisa il 16 agosto 1999. Secondo le ricostruzioni Scieri sarebbe caduto dalla piattaforma di addestramento per i lanci col paracadute mentre cercava di scappare dai suoi aguzzini. Le indagini sul decesso sono state ostacolate da omertà e occultamenti. Un caso più recente è quello che ha coinvolto Giulia Schiff, allieva del concorso per ufficiali dell’Aeronautica Militare, che ha denunciato i diversi episodi di nonnismo di cui era stata vittima. Schiff è stata espulsa dall’Aeronautica Militare. Infine, il caso di una carabiniera della Scuola allievi marescialli di Firenze, morta suicida a venticinque anni il 22 aprile scorso. Dalle indagini sono emersi episodi diffusi di vessazioni e violenze psicologiche ai danni di diversi allievi che avrebbero portato, nel corso del 2023, all’abbandono della Scuola di ventuno di loro.

Esercito italiano
Esercito italiano

Queste storie non si limitano a mostrarci come i depistaggi siano una prassi consolidata: ci raccontano anche di come sia diffuso e normalizzato il ricorso della violenza nelle caserme, contribuendo a contestualizzare storie come quella di Stefano Cucchi o del G8 di Genova.

Se i manifestanti avessero rispettato le regole: responsabilità e depistaggi

Durante il G8 di Genova venne applicata una gestione delle proteste militaresca avallata dal governo di centro destra presente nella sala operativa dei Carabinieri nella persona del vicepremier Gianfranco Fini, leader di Alleanza Nazionale, e di quattro membri del suo partito. Anche nel caso di Genova, le forze dell’ordine tentarono di depistare le indagini tese ad individuare i colpevoli delle violenze e delle torture, attribuendo la responsabilità di quanto accaduto ai manifestanti. Una prassi vista anche nel caso Cucchi, quando alcuni politici di centro destra tentarono di colpevolizzarlo accusandolo di essere  tossicodipendente. Lo si è visto più recentemente, durante l’informativa urgente del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi a marzo di quest’anno, convocata in seguito al ricorso, da molti considerato ingiustificato, alla forza da parte dei reparti celere durante le manifestazioni studentesche di Pisa e Firenze – ricorso alla forza che era già stato criticato per le manifestazioni studentesche del gennaio 2022 a Milano e a Torino nell’ottobre 2023. Il ministro giustificò l’intervento dei reparti celere sottolineando la presenza di una presunta «nota esponente antagonista», criminalizzando quindi la sinistra extraparlamentare, e riconducendo la responsabilità degli scontri ai manifestanti accusandoli di avere avuto comportamenti violenti nonostante i video dell’accaduto dimostrassero il contrario: «il rischio di incidenti e di scontri è pari a zero se i manifestanti non pongono in essere comportamenti pericolosi o violenti, rispettando le regole».

G8 di Genova
G8 di Genova

La storia di Stefano Cucchi è una storia attuale perché mostra una storia di lungo periodo che contestualizza anche l’attualità più stretta, come il ddl Sicurezza, e ci invita a prestare attenzione chiedendoci coerenza nella riforma dell’ordine pubblico e nella ricerca della verità giudiziaria, rendendo credibile il posizionamento italiano tra il novero di chi difende i diritti umani e lo stato di diritto. Se ne guadagnerebbe anche di autorevolezza nella ricerca sulla verità del caso di Giulio Regeni, morto in seguito alle torture ricevute in Egitto: uno Stato che certamente non rispetta i diritti umani, ma con cui l’Italia continua a fare affari.

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