Da gennaio 2025, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ha raccolto attorno a sé un gruppo di otto studenti e studentesse delle scuole superiori della città metropolitana di Milano, al fine di costituire un tavolo di ascolto e co-progettazione per le iniziative rivolte ai giovani, imparare a conoscere cosa sta loro a cuore e guardare ai propri temi con uno sguardo nuovo.
Che cosa volete voi a 16, 17, 18 anni rispetto al futuro e come vedete la vostra vita?
Giulia: Spesso veniamo descritti come quelli sempre attaccati al cellulare, però a me verrebbe da pensare che, in realtà, questo sistema è stato creato dalle generazioni prima di noi, da quella dei nostri genitori, di cui noi siamo in qualche modo vittime. Siamo nati in questo mondo, modellato sulle loro decisioni, e ci ritroviamo ad affrontarne le conseguenze. Spesso non si pensa a questo aspetto, ma di fatto è così: se il mondo in cui ci troviamo sta andando a fuoco non è sicuramente colpa nostra, che siamo nati da meno di vent’anni e non abbiamo ancora avuto il tempo di prendere decisioni così impattanti. Questo vale soprattutto per i telefoni e in generale per internet, sistema costruito da altri e di cui subiamo le conseguenze.
Ma quindi vi piacerebbe staccarvi dall’iperconnessione?
Giulia: Sì, ne subiamo le conseguenze. Ad esempio, a me piace utilizzare il telefono il meno possibile, non portarlo dietro quando vado a camminare.
Elena: Io invece penso di essere dipendente. Bisogna anche riconoscerla come dipendenza perché è tale a tutti gli effetti. È preoccupante che molti ancora non la considerino tale: si danneggia la nostra salute, il nostro tempo viene meno; personalmente per contrastarla cerco di intraprendere più attività, come far parte di questo board, per conoscere persone nuove, fare cose nuove che di sicuro mi rimarranno più impresse dei reel di 15 secondi. Su questo bisognerebbe insistere, provare a far capire che il fascino della dopamina è sì tanto, ma che ci sono molte cose più stimolanti del telefono, come il confronto e il dibattito.
Dalle vostre preoccupazioni vengono sempre fuori tematiche concrete, come il lavoro e il costo della vita. Eppure, si dice sempre che la generazione Z non vuole lavorare, cerca di sfilarsi dagli impegni… è una narrazione sbagliata o è vero che non volete lavorare?
Zoe: Non è corretta, ma è pure vero che dipende dai singoli. Io sinceramente voglio lavorare, non appartenere alla categoria di chi sta sempre a casa, uscire di più, andare in posti nuovi – e per questo sono qui – perché mi sono stancata di rimanere sempre a casa a guardare il telefono. Eppure, altri dicono sempre che si stancano, devono svegliarsi presto, non hanno voglia: che non vogliamo lavorare è una menzogna, però possiamo anche distinguere due categorie concretamente diverse.
Avete paura del mondo del lavoro? Come lo vedete?
Camilla: A me spaventa molto. Mi capita spesso che a scuola non se ne parli concretamente mentre al di fuori sento persone adulte che si lamentano del lavoro che fanno, non sono soddisfatti, pensando che non sia valso i sacrifici di studio o gavetta. Non c’è il desiderio di andare al lavoro, invece la mia ambizione è trovare qualcosa che mi faccia essere felice, qualcosa che mi appaghi. Quindi mi spaventa il dover scegliere e rischiare di fare qualcosa che non è realmente quello che voglio e sprecare così la mia unica opportunità. Non voglio finire dentro una routine che mi faccia sentire in gabbia, non in grado di esprimermi.
Elena: Sono d’accordo. Io sono in quarta superiore, abbiamo già iniziato il percorso di orientamento universitario e sono già in difficoltà. Essendo una persona curiosa, con molti interessi, potrei ritrovarmi a fare cose molto diverse tra loro. È difficile anche pensare di seguire le passioni, studiare qualcosa che mi piace ma consapevole che non troverò lavoro e mi chiederanno altre competenze per cui dovrò studiare altri tre, cinque anni, non lo so, senza lavorare, per imparare quello che mi serve per fare un lavoro che, alla fine, neanche mi piace.
È molto stressante questa cosa. Sento tantissimo anche la pressione dei miei genitori: per loro io non ho scuse, a differenza loro sono cresciuta in una grande città, con tante opportunità, con internet; quindi, sento molto questa cosa di dover trovare qualcosa in linea con chi sono, con la mia mente e non sprecare questa vita. Ma è difficile scegliere così, adesso.
Giulia: Io cerco di rimandare il più possibile, sono in terza superiore e ho un sacco di tempo, però voglio rimandare il momento in cui dovrò scegliere. Ho scoperto su internet una cosa molto interessante, ovvero quello che chiamano “Renaissance men”. È una teoria che sostiene sia giusto avere interessi in ambiti diversi: è quello che facevano appunto nel Rinascimento. Prendiamo ad esempio Leonardo da Vinci: un po’ scienziato, un po’ ingegnere, un artista molto bravo. La tesi è che in realtà l’essere umano dovrebbe seguire questo modello, mentre per colpa del capitalismo e soprattutto del fordismo ci è stato richiesto di essere sempre più specializzati per far parte di una catena di montaggio anziché sovrintenderlo. Mi interessa molto la questione perché mi piacerebbe trovare il modo di portare avanti i miei interessi, tutti quanti, insieme. Invece il mondo in cui viviamo ci chiede sempre di più di sceglierne uno solo, specializzarsi lì e non approfondirli tutti.
A proposito di più possibilità, torniamo a sfatare o confermare le narrazioni sui giovani più diffuse. È vero che siete una generazione fluida? Quanto conta la fluidità di genere e le questioni di genere secondo voi, per voi, nel futuro, nella società?
Giulia: Sicuramente ci sta a cuore la fluidità di genere, voglio dire, è una cosa sentita da alcuni di noi per cui la sentiamo di più. Non vuol dire che tutti si sentano fluidi, però tendenzialmente riteniamo che sia giusto difendere questa libertà: ci sono persone che si identificano così e quindi siamo degli alleati in questa lotta anche se magari non ci riguarda in prima persona. I concetti di maschile e femminile si stanno ridefinendo. Mettere lo smalto può anche essere una cosa maschile, femminile? Adesso è difficile da capire. Si sta cercando di scardinare questi stereotipi di genere, il discorso è complicato, si sta smuovendo qualcosa sicuramente anche se non tutti i giovani hanno effettivamente superato questi stereotipi.
Zoe: Allo stato attuale, abbiamo sempre categorizzato le persone: ognuno è in un modo e in base a quello allora finisce in una determinata categoria. Dobbiamo sempre appartenere a qualcosa. Non dovrebbe funzionare così.
Vuoi essere come sei? Va bene, basta, perché devi rientrare per forza in una categoria e dire “sono simile a te”? Ognuno è diverso, se tutti la pensassero così, che basta essere felice e stare bene con sè stessi, si fermerebbero molte dinamiche, come la disparità tra i generi.
Giulia: La parola che spesso viene utilizzata per definirsi all’interno della comunità LGBTQI+ è “queer” e non è un caso: è un termine ombrello, sotto cui si possono identificare in molti, e dimostra come a noi giovani non piacciono troppo le etichette. Magari pensiamo di non essere etero o cis, ma non vogliamo neanche indagare troppo, cerchiamo di viverci la cosa – per alcuni è così, certo non per tutti.
Elena: Dovremmo renderci conto che abbiamo problemi più gravi, come il mondo del lavoro: giudicare una persona per come si sente è una cosa ridicola, dovrebbe essere l’ultimo dei nostri pensieri. Per fortuna si stanno facendo tanti passi avanti nell’accettare gli altri così come sono.
È vero, le generazioni prima di noi sono cresciute in tempi diversi: il paradigma era fare una famiglia, adesso la persona rinascimentale vuole guardare anche oltre.
Giulia: Ci sono persone che vogliono ancora figli, ma ce ne sono sempre di più che sono contrarie perché pensano il contesto sia terribile e a malapena vogliono viverci loro; altri che pensano sia complicato economicamente, davvero costoso; altri ancora che non li vogliono perché è difficile conciliare il lavoro.
Che cos’è la politica per voi?
Elena: Posso dire uno schifo?
Giulia: Concordo. Uno schifo.
Tolta la realtà complessa e la disaffezione, nel vostro immaginario ideale cosa dovrebbe fare la politica? Di cosa si dovrebbe occupare?
Camilla: La mia sarà forse una visione un po’ utopistica, però è questo che mi aspetterei da un mondo in cui la politica funziona alla perfezione: un mondo in cui alcune persone gestiscono i cittadini con tutte le loro differenze e riescono ad aiutarle a svolgere la propria vita e raggiungere la felicità. È un’utopia, anche qui, ma ritengo che attraverso diritti, doveri, leggi corrette si possa raggiungere la felicità. Però è necessario che chi governa possa garantire ai cittadini di raggiungere questa felicità, senza leggi che discriminino e aiutino alcuni a prevalere sugli altri. Ci deve essere ascolto e intervento sui problemi, e deve essere fatto collettivamente, così come si faceva ad Atene: tutti seduti in tondo che facevano grandi dibattiti. Dibattiti veri, nonostante anche all’epoca ci fossero discriminazioni di classe.
Il punto è che bisognerebbe sì tornare a un certo patriottismo, ma in cui ognuno entra veramente nel dibattito per il desiderio di raggiungere il bene per la propria comunità. Se la politica funziona male non è tanto un problema di chi governa che è corrotto o non sa fare il proprio, quanto nostro, che potremmo fara qualcosa, scendere in campo e aiutare la comunità. Magari non migliorerà nulla nel corso della mia vita, ma potrebbe migliorare in quella di mio figlio o di chi mi succederà. Una vita con più speranza, ecco. È la politica che può garantire e alimentare la speranza dei cittadini.
Giulia: Io sono d’accordo. Infatti, secondo me, quando si parla di politica, è da considerare che non stiamo parlando solo dell’operato dei politici ma anche dell’interesse dei cittadini. Questa mancanza di consapevolezza è chiara, basta vedere quante persone non vanno a votare. Il disinteresse per la politica cresce perché spesso ci si sente delusi dai politici in generale e si finisce a pensare che votare per uno, per un altro o per nessuno non cambierà nulla. A me fa pensare a un racconto di Ray Bradbury, Il pedone, in cui descrive le persone come zombie davanti alla televisione. È un po’ quello che sta succedendo a noi con la televisione, i social, i contenuti di intrattenimento. Ci interessano solo cose superficiali e i programmi televisivi ci distolgono dalle questioni importanti.