Il mondo dell’università vive un disagio profondo, che si manifesta in vari ambiti.
Uno riguarda le strutture di servizio, spesso trascurate nel dibattito pubblico. Un altro si trova nella didattica, che, con la sua trasformazione in sistema di massa, ha finito per svalutare l’insegnamento, riducendolo a una trasmissione rapida e semplificata di contenuti. Questo modello lascia sempre meno spazio all’esperienza della ricerca e allo studio critico. Di conseguenza, il sapere che si trasmette tende a essere sempre più superficiale e compilativo, e sempre meno frutto di analisi e approfondimento.
In breve, la trasformazione dell’università in «esamificio». Un luogo votato alla produzione di carta – il diploma – infine approdato al blocco, come tutte le agenzie del welfare di massa (la sanità; la scuola, la pubblica amministrazione) con conseguente delusione dei clienti, frustrazione degli addetti e rabbia di entrambi.
I clienti. Una struttura pensata per formare la riproduzione gerarchica dei saperi e delle professioni della società tradizionale apriva le porte di accesso, ma non consegnava percorsi nuovi o allargati di professionalizzazione o di impiego. L’effetto non era futuro «aperto all’imprevisto», ma solo «sulla carta». Spesso inesistente e dunque carico di rancore, o caratterizzato dal ripiegamento.
Gli addetti. Il personale docente sta vivendo un progressivo svuotamento del proprio ruolo. Si passa dalla figura dell’esperto, con competenze specifiche e riconosciute, a quella di semplice esecutore, incaricato di ripetere nozioni.
In molti casi, si arriva addirittura a svolgere un ruolo simile a quello di un «baby sitter», all’interno di un sistema che sembra sempre più lontano da una logica funzionale e formativa. Conseguenza: il corpo docente è frustrato, si sente penalizzato e degradato a impiegato, escluso dai processi decisionali e svalutato nelle sue competenze
Non basta ripristinare le vecchie gerarchie per risolvere la crisi delle università
Questo ovviamente se la struttura è afferente al sistema pubblico perché, se la struttura ha carattere privato allora si può pensare che le vecchie e sane regole di gerarchia siano ancora vigenti e dunque si definisca un percorso di valorizzazione delle forze intellettuali. Un percorso che prima di tutto chiede il ripristino (la restaurazione sarebbe lemma troppo audace) delle regole di funzionamento, di selezione e, dunque, di gerarchia.
Immagine che fa conto di non vedere che è il sistema di diffusione del sapere ad essere radicalmente mutato. Un mondo intellettuale e di docenza alta aveva un ruolo dentro perché ciò che lo accreditava e gli forniva piattaforme di diffusione o anche semplicemente “di diritto alla parola” si è parallelamente dissolto. Il problema non è più solo se hai qualcosa di innovativo da dire e da dare (che sarebbe già molto) ma soprattutto se sai muoverti nel mondo della comunicazione che non domini.
La crisi dell’università, perciò, non è conseguente alla dissoluzione di un mondo che funzionava e che sarebbe sufficiente ripristinare perché riprenda «a girare». Ma è crisi di funzioni, di status, ma soprattutto di percorsi che non sono originati da un cattivo progresso e da un perverso sviluppo, ma da una sfida in cui i tecnici del sapere devono radicalmente ripensare linguaggio, funzioni, forme della comunicazione, finalità dell’istruzione.
Tutti terreni che ai permalosi dello status perduto non mi pare che interessino granché. Mi sbaglio?