Verso una società che pensa: come umanizzare il digitale

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Articolo tratto dal N. 37 di LavorAI, se gli umani non servono più Immagine copertina della newsletter

La digitalizzazione

E’ quella cosa destinata a modificare profondamente il nostro modo di vivere, lavorare, relazionarci e persino di pensare. Non si tratta semplicemente di una nuova fase dello sviluppo tecnologico, ma di una vera e propria evoluzione antropologica: ogni tecnogenesi comporta una antropogenesi. Come è accaduto con le precedenti rivoluzioni (agricola, industriale, mediatica), anche quella digitale produce nuove possibilità, apre scenari inediti, amplia l’autonomia individuale e collettiva. Ma, al tempo stesso, impone costi altissimi, genera nuove forme di esclusione, alimenta rischi sistemici. Nulla sarà più come prima.

Non c’è dubbio che la digitalizzazione porterà benefici in molti ambiti: dalla medicina personalizzata all’ottimizzazione delle risorse energetiche, dalla semplificazione burocratica all’accesso istantaneo alla conoscenza. Tuttavia, come ogni grande trasformazione, anche questa comporta effetti collaterali. Alcuni saranno positivi, altri problematici. La transizione sarà lunga, difficile e costosa. Ci sarà chi ne trarrà vantaggio e chi, al contrario, ne pagherà i costi. Le disuguaglianze, almeno per una fase, tenderanno a acuirsi. Interi segmenti del lavoro umano rischiano l’obsolescenza. Con gli inevitabili effetti in termini di insicurezza sociale, ansia, nuove forme di marginalità.

Ovviamente non è economico o occupazionale. Il vero rischio è culturale e politico: la possibilità che la società digitale si trasformi in una distopia. Una società ipercontrollata, sorvegliata in ogni suo movimento, dove le libertà individuali vengono erose in nome dell’efficienza e della sicurezza. La società del “grande fratello” non è solo quella del nuovo Leviatano tecnologico che tutto vede, prevede e regola. È anche – e forse soprattutto – una società della “stupidità di massa”: un ambiente in cui l’intelligenza artificiale prende il posto dell’intelligenza umana, e in cui la vita collettiva si svuota di senso, appiattendosi su un tempo libero interamente assorbito dal consumo e dall’intrattenimento passivo. Una “jobless society” in cui il lavoro, anziché evolversi in forme più creative e generative, viene sostituito da algoritmi, e le persone perdono il legame tra ciò che fanno e ciò che sono.

La sfida…

Non riguarda soltanto la tecnologia o l’economia, ma coinvolge anche – e forse soprattutto – la società, la cultura, la politica. Occorre imparare a governare la tecnica, senza farsi governare da essa. Serve una nuova capacità di discernimento collettivo, capace di distinguere ciò che è utile da ciò che è distruttivo, ciò che potenzia l’umano da ciò che lo svuota. In un mondo dove tutto cambia rapidamente, dove i dati prevalgono sulle storie e le performance sulle relazioni, è urgente ripensare il progetto di civiltà. Ma nessuno, oggi, possiede la ricetta giusta. Nessuno sa esattamente come fare.

Ecco perché la transizione digitale – come tutte le grandi svolte epocali – non potrà essere affidata solo agli esperti. O peggio ai grandi interessi tecnologici o finanziari. È un processo che va costruito insieme, giorno per giorno, attraverso il coinvolgimento di tutte le energie vive della società. In particolare, tocca alle nuove generazioni prendere in mano questo compito. Non come meri fruitori passivi di tecnologie, ma come protagonisti attivi del cambiamento. Il futuro non è già scritto. Può essere costruito, se esiste la volontà di farlo in modo responsabile, critico, cooperativo.

Abbiamo bisogno di una società pensante

C’è però un punto fermo, un orientamento che può guidare questo cammino incerto. Se vogliamo che l’esito della transizione digitale sia positivo, umano, sostenibile, allora dobbiamo lavorare per creare una società che pensa di più. Come individui e come collettività. Non semplicemente elaborare informazioni o risolvere problemi – questo lo sanno fare benissimo le macchine. Ma pensare nel senso più profondo del termine: riflettere, interpretare, immaginare, giudicare, sentire.

Pensare non è un processo astratto. È, al contrario, radicato nella concretezza della vita. Nasce dall’esperienza vissuta, dall’incontro con l’altro, dalla tensione tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. È un’attività olistica, in cui entrano in gioco non solo la ragione, ma anche l’affezione, l’emozione, il desiderio, la meraviglia, lo stupore, la memoria, la giustizia. Una società che pensa di più è una società che sa mettersi in discussione, che riconosce i propri errori, che coltiva visioni, che non si accontenta del presente così com’è, ma lo attraversa con lo sguardo rivolto all’impossibile. È una società più libera, più aperta, più capace di futuro.

In definitiva, la sfida della digitalizzazione non si gioca solo nei laboratori o nei centri di ricerca, ma nel cuore della nostra umanità. Cioè della nostra vita insieme. È lì che si decide se questa nuova stagione sarà un tempo di liberazione o di schiavitù, di rinascita o di decadenza. Non basta innovare: bisogna umanizzare. Non basta automatizzare: bisogna educare. Non basta connettere: bisogna pensare. E per pensare davvero, occorre abitare la vita nella sua pienezza. Solo così la società digitale potrà essere all’altezza della dignità dell’essere umano.

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