Gli abusanti si differenziano tra di loro riguardo tanti aspetti: l’unica cosa che li accomuna è l’essere uomini. Poiché anch’io sono un uomo, la violenza di genere coinvolge e interroga anche me, anche perché questa è utile al mantenimento dei nostri privilegi sociali, economici, simbolici, di ciò che Connell ha chiamato il “dividendo patriarcale”, un beneficio da cui anche io traggo vantaggio. È proprio su questo privilegio maschile – e sull’oppressione delle donne – che si fonda il patriarcato. E anche se io non ho mai alzato un dito su una donna, il mio essere un uomo mi coinvolge in questa violenza e mi spinge a fare qualcosa, a intervenire.
Usare la maschilità come lente interpretativa della violenza di genere può permettere un intervento educativo, trasformativo delle nuove generazioni. Le aule delle nostre scuole sono un enorme laboratorio in cui si stanno velocemente trasformando i modelli di genere, di maschilità e di femminilità. Secondo gli studi, abbiamo una generazione di adolescenti che sempre più si dirige verso una giustizia di genere, sempre più libera da misoginia, meno omofobica, meno machista delle generazioni precedenti.
Contemporaneamente, però, abbiamo una minoranza di ragazzi e di uomini che si irrigidiscono di fronte al protagonismo sociale, economico, culturale delle donne (così come di fronte alla visibilità e alla libertà delle persone LGBT+) e che – in maniera consapevole o inconsapevole – desiderano la restaurazione di un ordine machista, sentendosi diminuiti nel loro potere patriarcale, e cercano una sorta di revanche contro i femminismi e contro i desideri non eteronormati. In queste complesse trasformazioni risulta assente una sponda educativa: noi adulti non ci siamo, né come genitori né come insegnanti, in particolare noi uomini.
Spazi omosociali, complicità maschile da sradicare
La violenza di genere è, a mio avviso, la conseguenza di un dispositivo sociale che articola i generi in maniera complementare e asimmetrica, dando al maschile (a un tipo specifico di maschile) un ruolo egemonico, che spesso diventa tossico. Tutti noi cresciamo assorbendo modelli di genere: non soltanto a scuola, ma in famiglia, tra i coetanei, guardando una serie TV o leggendo un romanzo. Poiché tale 1) apprendimento, 2) personificazione e 3) messa in scena della maschilità avviene in una società ancora fortemente maschilista, il risultato confermerà spesso uno stereotipo di virilità, a meno che i ragazzi e gli uomini se ne dissocino, praticando percorsi di esodo dal patriarcato, rinunciando alla complicità intramaschile, smettendo di ridere a una barzelletta sui gay e di guardare per strada il fondoschiena di una passante, come fosse un diritto e una necessaria manifestazione maschile. È importante che noi uomini cerchiamo di prosciugare quel brodo di coltura da cui la violenza di genere nasce e in cui si riproduce. Tuttavia, non ci poniamo ancora il problema di educare i giovani all’affettività, al genere e alla sessualità, nemmeno dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, dopo lo stupro di gruppo al Foro Italico di Palermo, dopo Caivano.
Formarsi alle tematiche di genere
Esiste un crescente movimento d’opinione che chiede di poter trattare a scuola questi temi, magari con momenti specifici dedicati. Ma possiamo affidare un tema così delicato a un/a docente soltanto perché ha una laurea in Matematica o in Greco, anche se non ha ricevuto una formazione specifica? Non è affatto detto che un insegnante – soltanto perché insegnante – abbia conoscenza e consapevolezza delle tematiche di genere e sessualità. È al contrario possibile che tale docente trasmetta, anche inconsapevolmente, i propri modelli maschilisti e genderisti: è quello che viene detto curriculum nascosto che si associa spesso a quello esplicito, cioè ai contenuti delle discipline. Sarebbe invece molto più utile che, nella formazione in ingresso dei professori, fosse presente anche una specifica formazione alle tematiche di genere e sessualità, tenuta da docenti specialisti del tema, capaci di sottrarlo al chiacchiericcio da bar dello Sport che spesso lo avvolge.
Non si tratta di tenere lezioni su genere e sessualità. L’educazione al genere non è un contenuto disciplinare, piuttosto una lente attraverso cui leggere la realtà, attraverso cui coscientizzare i/le docenti della scuola, rendendoli capaci di leggere i rischi che possono svilupparsi in adolescenza (dalla teen dating violence al revenge porn) e quelle microviolenze che accadono nelle palestre, nei bagni, nei corridoi, in tutti quei luoghi della scuola in cui si costruisce il genere, in maniera informale e spesso lontano dagli occhi di noi adulti.
Superare l’ “eroe guerriero”
Se guardiamo all’adolescenza, dobbiamo infatti riconoscere che oggi l’educazione al genere, alla sessualità e all’affettività non viene più fatta dalle famiglie, ma attraverso internet, attraverso le piattaforme online di porno gratuito cui chiunque abbia uno smartphone può accedere, attraverso i cartelloni pubblicitari, vallette e presentatori, calciatori e veline. È allora totalmente inutile spiegare come nascono i bambini, più utile lavorare su quella produzione di modelli di maschilità tossica che avviene, in maniera informale, nel confronto tra i pari, attraverso le battute di spirito, gli insulti usati, i falli graffiti nei gabinetti, ecc.
Anche se è indebolito dalle trasformazioni sociali e culturali, molti ragazzi crescono ancora cercando di incarnare il tradizionale modello dell’eroe guerriero, capace di “conquistare” una donna e di farsi “rispettare” dagli altri maschi. Al tipo dell’eroe guerriero – oggi evidentemente (e per fortuna) in crisi – la nostra società non ha ancora accostato altri modelli, ed esso rimane ancora una via attraverso cui alcuni ragazzi cercano di riaffermare un predominio maschile, di restaurarlo, di resuscitarlo, attraverso l’uso della violenza verbale, fisica, sessuale o simbolica.
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