Il concetto di razza si sta trasformando, sta assumendo i contorni di un’altra categoria storico-politico-sociale. Sappiamo che la scienza ha decostruito il concetto di razza in senso biologico. Però, come afferma Andrea Graziosi nel suo libro Il ritorno della razza questa categoria sembra riaffermarsi con forza nella dimensione sociopolitica. Cosa rende, secondo lei, così resistente il concetto di razza?
Sono d’accordo con l’analisi di Graziosi. Però penso che ci possa essere un po’ di confusione tra razza e razzismo, due parole che hanno la stessa etimologia, ma riguardano ambiti molto diversi. La razza è stato un tentativo ottocentesco, poi mutuato nel Novecento, di descrivere in qualche modo la biodiversità umana.
Il dibattito sull’esistenza delle razze umane ha prodotto pochi risultati concreti. Piuttosto che cercare di dimostrare l’inesistenza di qualcosa – un’impresa filosoficamente complessa, come osserva Giovanni Boniolo – è più utile riconoscere che il concetto di razza oggi non ci serve a niente. Né in medicina né nella ricostruzione della nostra evoluzione fornisce informazioni utili. Al contrario, concentrarsi sugli individui permette di comprendere meglio le differenze e di ottenere progressi in ambito medico e farmacologico.
Il razzismo riguarda i diritti delle persone e la possibilità che a un colore della pelle diverso, a una lingua diversa, a un passaporto diverso, corrispondano diritti diversi. Anche se le parole sono molto simili, in realtà non sono collegate fra di loro. L’ultima cosa che mi sento di aggiungere su questo è che – mentre nei primi dell’Ottocento le politiche razziali del governo fascista italiano, di quello nazista, ma anche quelle negli Stati Uniti e in Inghilterra si basavano su un tentativo di appoggiarsi su un ragionamento scientifico, sebbene esso fosse sbagliato – oggi non c’è più bisogno di convincere le persone; oggi c’è bisogno di trovare degli slogan efficaci e “razza” è indubbiamente una parola efficace.
C’è un rischio che questi slogan, come dice lei, questi tentativi, rafforzino nuove forme di esclusione e che queste forme di esclusione siano anche più durevoli e resistenti proprio perché non c’è più bisogno di convincere nessuno?
Più che un rischio direi che lo stiamo vedendo davanti ai nostri occhi.
C’è un aspetto paradossale: negli Stati Uniti, dove buona parte di questo dibattito sulla razza ha avuto origine e dove sono qualche anno più avanti di noi nel dibattito sul razzismo, tra i difensori estremi del concetto di razza ci sono i gruppi discriminati in passato.
Negli Stati Uniti, il concetto di “ispanico” non ha alcun fondamento biologico, ma indica persone che parlano spagnolo in ambito familiare. Il sistema americano ha sviluppato meccanismi di compensazione per gruppi storicamente svantaggiati, come le comunità afroamericane e ispaniche, offrendo loro incentivi per favorirne l’accesso a opportunità educative e lavorative. Tuttavia, questo sistema può creare una sorta di incentivo alla permanenza in tali categorie: chi si identifica come ispanico, per esempio, può beneficiare di agevolazioni nell’accesso alle scuole migliori, che facilitano l’ingresso nelle università più prestigiose e, di conseguenza, in lavori meglio retribuiti. Questo porta a una situazione paradossale, in cui il concetto di razza viene difeso sia da gruppi razzisti tradizionali, come i nostalgici del Ku Klux Klan, sia da comunità storicamente discriminate, che vedono nel riconoscimento della propria appartenenza etnica un mezzo per ottenere maggiori opportunità.
Non so a cosa porterà questa alleanza, anche se immagino che nessuno di loro ne parla o ne parlerebbe in questi termini.
Secondo lei da che cosa dobbiamo stare in guardia oggi per difenderci da questi slogan?
In Italia e in Europa c’è un problema politico complesso e irrisolto: la demografia e l’invecchiamento della popolazione. Chiunque analizzi razionalmente la situazione demografica non può che giungere alla conclusione che per garantire la sostenibilità del sistema è necessario un significativo afflusso di immigrati che lavorino regolarmente e contribuiscano con il pagamento delle tasse. Senza questo apporto, la situazione rischia di diventare rapidamente insostenibile.
Penso anche che in questo momento presentarsi con una piattaforma del genere alle elezioni sia anche una garanzia di sconfitta. E questo è un altro dei paradossi in cui stiamo vivendo. C’è molta paura dell’immigrazione e quindi si erigono tutte le barriere che si possono erigere e quelle basata sul colore della pelle, oppure senza essere razzisti, in modo tradizionale, sulla religione degli immigrati, sono barriere molto evidenti, molto facili da costruire. Io credo che nei prossimi anni il problema si aggraverà e poi a un certo punto succederà qualcosa, perché se non vogliamo rinunciare allo stato sociale come lo conosciamo, dovremo porci il problema di chi lavora per pagare le pensioni.
Secondo lei la scienza può fare qualcosa in questo senso per difenderci dagli slogan?
La scienza non ha mai potuto fare tantissimo e adesso mi sembra che faccia molto poco, proprio perché le forme che ha preso questo dibattito sono forme che mal si addicono a un ragionamento scientifico, che comunque anche quando è fatto da un bravo comunicatore richiede un po’ di articolazione.
Non è un buon momento per quelli che sono tendenzialmente illuministi, l’abbiamo visto anche alle ultime elezioni negli Stati Uniti. Mi illudevo qualche anno fa che l’educazione portasse dei risultati tangibili e che col crescere del livello medio di istruzione anche le modalità del confronto sociale diventassero più elaborate. Questo non sta succedendo e lo vediamo proprio nei paesi dove ci sono livelli di istruzione e di reddito più alti. In questi paesi si stanno affermando delle forze politiche radicali che scavalcano completamente il ragionamento per portarsi su un piano con cui io non ho familiarità.
Mi ricordo una frase che mi disse molti anni fa un professore di chimica che era passato attraverso gli anni del fascismo: “ci sono dei momenti in cui tutto quello che puoi fare è tenere acceso un lumicino di speranza, sperando che poi il clima cambi e che questa luce possa aumentare”. Penso che noi scienziati possiamo tenere accesa questa fiamma, possiamo cercare di continuare a ragionare con le persone.
Secondo lei, parlando proprio di immigrazione, che è il tema caldo in questi tempi, la gestione dell’altra parte, della parte progressista, ha peccato di approssimazione?
Si pecca sempre di approssimazione quando si fa politica perché si va alla ricerca di un compromesso che stia in piedi. Non è come la fisica nucleare in cui la particella può essere piazzata con grande precisione a un livello di energia.
Io credo che da un lato abbiamo sottovalutato le paure che il problema dell’immigrazione ha provocato in generale. Poi a un certo punto è arrivata anche una specie di euforia della globalizzazione. Erano i tempi di Tony Blair, Bill Clinton e Massimo D’Alema, in cui sembrava che veramente ci si stesse aprendo a un nuovo modo di vivere tutti quanti insieme, tutti quanti in comunicazione. Al tempo stesso, francamente, a me piace di più un mondo in cui si cerca di comunicare seppure in modo approssimativo piuttosto che un mondo frammentato da confini attraverso cui ci si guarda bellicosamente.
Mi auguro che qualcuno più abile di me, più a suo agio di me con le nuove forme di comunicazione trovi un sistema per mandare un messaggio diffuso di ragionevolezza. Teniamo in considerazione tutti gli aspetti della faccenda e non lasciamoci terrorizzare da un problema che magari è complicato da risolvere. L’immigrazione è un problema complicato da risolvere, nessuno dice che sia semplice, però è un problema da gestire.
Le faccio l’ultima domanda. Parlando con le persone nella vita di tutti i giorni capita sempre di imbattersi nella frase “noi non siamo mai stati razzisti, ma siamo brava gente. Sono loro che non si vogliono integrare”. Questa frase è difficile da scardinare, ma cosa racconta davvero?
Questa frase rappresenta già un livello abbastanza avanzato di comunicazione e chi la pronuncia comunque ammette la possibilità di integrazione.
Il disaccordo sull’integrazione riguarda spesso fino a che punto una persona debba adattarsi a una nuova cultura, ma resta comunque un dibattito aperto. Tuttavia, ho l’impressione che, nella maggior parte dei casi, il vero pensiero sia semplicemente: “Io quelli lì non li voglio vedere qui intorno.”
Stefano Allievi, sociologo dell’Università di Padova ed esperto in materia, sottolinea quanto sia difficile affrontare le trasformazioni globali. Il livello di disuguaglianza nel mondo è così estremo che, anche se vengono imposte leggi per limitare la migrazione, chi si trova in condizioni disperate cercherà comunque di partire. Se un genitore sa che suo figlio non ha futuro, preferisce metterlo su un barcone, anche rischiando di non rivederlo mai più.
Spero che arriverà il momento in cui saremo costretti a ragionare seriamente su questo tema. Ma temo che quel momento non sia vicino.
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