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La rivincita della maschiosfera

 


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Mentre i toni in politica si radicalizzano, molte aziende stanno chiudendo i programmi di inclusione e diversità
Una società più equa non è però una moda passeggera. Richiede un impegno quotidiano che inizia dal linguaggio


Osservando la comunicazione politica dell’ultimo anno, è abbastanza evidente che stiamo assistendo a una radicalizzazione dei toni. Sicuramente non è un fenomeno inedito: pur essendo ormai diverso tempo che si discute di discriminazioni e di hate speech dentro e fuori dalla rete, possiamo dire che si tratta di fenomeni largamente analizzati, ma non per questo superati. Forse, rispetto ai decenni passasti, abbiamo maggiore consapevolezza dei meccanismi perversi della comunicazione della massa oltre che di massa, ma non si può certo affermare che la società sia mai riuscita a superare tali storture. 

Per una società di convivenza delle differenze

Dalla mia prospettiva, posso dire di avere partecipato attivamente, negli ultimi anni, a un movimento socioculturale volto a divulgare la possibilità di una comunicazione non di puro antagonismo e polarizzazione, di apertura verso la diversity, la varietà umana, di attenzione ai comportamenti linguistici discriminatori, che fossero sessisti, abilisti o razzisti, insomma di relativizzazione di punti di vista tradizionali dati a lungo per universali: una vera e propria decolonizzazione del pensiero e della parola. Questo, con la consapevolezza che si tratta di processi lunghi e tutt’altro che indolori, ma comunque significativi nel tentativo di creare una società di convivenza delle differenze, secondo la definizione di Fabrizio Acanfora. Del resto, io e le persone con cui lavoro abbiamo sempre pensato che la violenza verbale e fisica abbia radici culturali, e che solo dal riconoscimento della sua sistemicità possa arrivare la possibilità di una sua riduzione, se non eliminazione. 

Con la consapevolezza di quanto le dinamiche di accettazione della diversità e di convivenza siano faticose, è forse più comprensibile il successo delle narrazioni messe in atto dalle neodestre e dai populismi, basate sulla ripresa di ipotetiche tradizioni che sembrano dare qualche sicurezza (es. la “famiglia naturale”, costrutto realmente non più vecchio di alcuni secoli) e sulla “naturalezza” di una serie di discriminazioni e suddivisioni della società, sulla celebrazione dell’omofilia e, simmetricamente, della normalità della xenofobia in senso lato. L’altro, dunque, considerato ancora una volta come un pericolo, un possibile nemico, il che porta a una suddivisione tra noi e loro e alla creazione di schiere di nemici. È il fenomeno comunicativo e sociale noto come othering, “alterizzazione”, estremamente funzionale per la creazione di gruppi (in-group) altamente coesi di fronte agli out-group. L’aspetto particolarmente rilevante della coesione dell’in-group è che è legata spesso più alla condivisione di principi morali, sociali, religiosi che non a risposte politiche concrete.

La maschiosfera e la cultura dell’odio

Altrettanto comprensibile, per quanto estremamente preoccupante, è la velocità con la quale molte aziende stanno chiudendo i programmi di diversità, equità e inclusione per abbracciare le nuove tendenze del mercato (sia economico sia culturale), come se la ricerca di una società più equa fosse (stata) uno sghiribizzo passeggero.

Nell’ambito di questa sorta di backlash rispetto agli anni di politiche di DE&I, ossia diversità, equità e inclusione (che però non hanno ancora, a mio avviso, raggiunto sufficiente rilevanza nel panorama culturale), ha particolare rilevanza la ripresa di quota del sessismo, quando non apertamente della misoginia, che passa da forme di ostentazione della maschilità (quella che, per certi versi, viene per l’appunto definita tossica) non solo nelle parole, ma anche nella prossemica, nell’abbigliamento, nella gestualità. Nella cosiddetta maschiosfera possiamo trovare i redpillati (coloro che hanno scelto la pillola rossa in Matrix, cioè di conoscere la verità); gli incel (da involuntary celibate, “celibe involontario”, nome che accomuna molti gruppi che individuano a vario titolo il genere femminile come radice dei problemi del maschio); gli MRA, ossia men’s rights activists, “attivisti per i diritti degli uomini”, che sarebbero il vero sesso bistrattato dalla Storia). In tali contesti si leggono comunemente opinioni e commenti agghiaccianti sulla donna, sia riguardo all’aspetto fisico sia sulle caratteristiche mentali, sul comportamento, la cultura, la preparazione eccetera. Opinioni, del resto, che sono sempre esistite, ma delle quali molte persone, forti dell’esempio dato da personaggi di primo piano della società, sembrano vergognarsi meno di una volta, in una specie di normalizzazione della misoginia.  

L’emancipazione è in pericolo?

Il simbolismo di genere, che divide i maschi in alfa e beta, passa dal lessico, certo, ma anche da ragionamenti che, apparentemente, sembrano sensati, e che invece si basano su un attento cherry picking, cioè sul prediligere, nella narrazione messa in atto, alcuni dati e alcune informazioni rispetto ad altri. Per fare solo un esempio, questo avviene quando si citano i dati ISTAT sulle morti violente e ci si concentra sul fatto che vengano uccisi più uomini che donne, ignorando il dato fondamentale per comprendere perché i femminicidi – donne uccise in quanto donne di qualcuno – siano un problema sistemico, mentre i maschicidi – uomini uccisi in quanto uomini di qualcuna – no: la stragrande maggioranza degli uomini muore per mano a loro sconosciuta, il che vuol dire che di base c’è maggior esposizione alla violenza; la stragrande maggioranza delle donne muore per mano a loro nota, in particolare partner, ex partner o altro familiare, di norma di sesso maschile.

In un mondo in cui poche persone controllano le fonti, e possono quindi prosperare le affermazioni postfattuali, la ripresa di quota del sessismo non deve dunque stupire, arrivando a convincere anche una parte del genere femminile rispetto alla sua validità: si pensi a un fenomeno social e sociale al quale avevo già accennato in passato, quello delle trad wife, “mogli tradizionali”, che sono giovani, belle e molto curate nell’aspetto, che inscenano una vita perfetta spesa tra la cura del marito e della prole, la pagnotta di pane fatto in casa, le marmellate autoprodotte e le pulizie domestiche, con un certo richiamo al modello familiare degli anni Cinquanta. La forza di queste narrazioni basate sull’inuguaglianza tra i generi, a mio avviso, passa dal riuscire a convincere le persone sottomesse stesse che la loro sottomissione sia giustificata dalla natura e dalla tradizione. Perché la tradizione, si sa, fornisce certezze, là dove la diversity sembra volerle distruggere.  

Oggi, forse, sottovalutiamo ancora la portata simbolica e culturale di questi fenomeni: a mio avviso, invece, andrebbero analizzati con attenzione, perché così come l’emancipazione passa dall’istruzione e dall’acquisizione di strumenti epistemici fondamentali, è un attimo che tali strumenti, magari dati per scontati e ormai acquisiti, vadano persi. 

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