Sciopero! 1943 la stagione del cambiamento

Nati da cause economiche, hanno accompagnato la Liberazione diventando un esempio di protesta civile


Articolo tratto dal N. 22 di

Il lavoro, le scelte, le lotte

Lo sciopero strumento di Resistenza 

Gli scioperi operai del 1943 partirono da Torino il 5 marzo, per poi propagarsi anche in altre zone d’Italia, in particolare a Milano e, nei primi giorni di aprile, nel Biellese. Finalmente, a diciassette anni dall’entrata in vigore della legge sindacale Rocco (n. 563 del 3 aprile 1926), che aveva cancellato nel paese la libertà di sciopero, i lavoratori tornavano a impossessarsi del loro principale strumento di resistenza, il più efficace per la difesa dei propri diritti e interessi.

Le agitazioni del marzo-aprile 1943 rappresentarono, di fatto, l’inizio della Resistenza, oltre che un passaggio rilevante nella catena di eventi che condusse il 25 luglio alla caduta di Mussolini. In seguito, altri scioperi si sarebbero susseguiti, soprattutto dopo l’armistizio dell’8 settembre: dall’autunno del ‘43 alla possente mobilitazione generale del marzo ‘44, fino agli scioperi insurrezionali dell’aprile ‘45, che accompagnarono la Liberazione.

L’origine economica

Gli storici hanno dibattuto molto sulle cause e sugli effetti degli scioperi del 1943, interrogandosi e anche polemizzando sulla loro natura, economica o politica. La spontaneità iniziale ne spiega, senza dubbio, le origini economiche: alla fine del terzo inverno di guerra, le condizioni di vita del popolo italiano, e in particolare delle classi popolari, erano sempre più drammatiche, segnate dalla durezza dei bombardamenti aerei, dall’aumento vertiginoso del costo della vita e dalla penuria di cibo e beni di prima necessità. In tale scenario, la mancata concessione da parte del regime del “premio del ventennale” – promesso ai lavoratori per celebrare i vent’anni dalla marcia su Romanon fece che alimentare il malcontento. 

Il valore politico

Se la matrice economica degli scioperi è chiara, è altrettanto evidente il valore politico che essi assunsero in breve tempo, tanto da spingere lo stesso Hitler a insistere con il duce per una punizione esemplare dei lavoratori coinvolti. Scaturiti da rivendicazioni perlopiù salariali, essi divennero presto scioperi politici, anche grazie all’azione coraggiosa di un nucleo di militanti comunisti che da tempo avevano saputo infiltrare le fabbriche e il sindacato fascista. Così, gli scioperi si trasformarono in una ferma denuncia del fascismo e dei suoi fallimenti, economici prima ancora che militari.

L’antifascismo sociale nelle fabbriche

Più in generale, grazie alla spinta iniziale degli scioperi del marzo-aprile 1943, l’antifascismo sociale degli operai delle grandi fabbriche del Nord (ma anche di altre categorie, come tipografi e tranvieri) divenne l’espressione più genuina di quella Resistenza civile, e popolare, che affiancò da un lato la Resistenza militare dei partigiani e dall’altro la Resistenza politica del Comitato di liberazione nazionale. Per citare il classico di Claudio Pavone sulle tre guerre di Resistenza, accanto alla guerra patriottica di liberazione nazionale dai nazisti tedeschi e alla guerra civile combattuta tra italiani fascisti e antifascisti, gli scioperi furono il simbolo di quella guerra di classe che molti lavoratori dichiararono non solo al regime mussoliniano ma anche a quei “padroni”, agrari e industriali, che avevano sfruttato dapprima la violenza squadrista e poi la dittatura per peggiorare la condizione economica e normativa di braccianti e operai, nei campi e nelle fabbriche, realizzando ingenti profitti.

Scioperi del marzo 1944

“Capolavori” di protesta resistente

Gli scioperi furono la punta dell’iceberg. Accanto ad essi colpisce la pervasività di una micro-conflittualità operaia quotidiana, fatta anche di gesti minuscoli, apparentemente insignificanti, ma che alla lunga finirono per fiaccare il nemico. Nella battaglia ingaggiata contro i nazifascisti, si affermò quindi anche una resistenza minuta, con molteplici azioni di sabotaggio che mostrarono l’intelligenza di una classe operaia la quale, soprattutto nelle sue fasce specializzate, conosceva meglio di chiunque altro i meccanismi della produzione, riuscendo così a rallentarla o a bloccarla, contribuendo in modo diretto alla Liberazione. La prova più lampante si ebbe proprio nei giorni che precedettero il 25 aprile, quando – con i tedeschi in ritirata e i fascisti in difficoltà – molte fabbriche, che fino ad allora erano apparse immobili, incapaci di contribuire alla produzione bellica, ripresero a marciare, a fornire armi e munizioni, anche a ritmi elevati, ma questa volta per sostenere le bande dei “ribelli”. In tal senso, gli scioperi insurrezionali della primavera del ’45 – di cui tra qualche settimana ricorre l’ottantesimo anniversario – rappresentarono un vero e proprio “capolavoro” di protesta resistente. 

Una lezione ancora attuale

Ha scritto in modo efficace Vittorio Foa nella sua autobiografia Il Cavallo e la Torre:

 

«le certezze che ci sono state impartite dalle dottrine, dai partiti o dai partiti-Stato e dai loro capi sono andate in pezzi e […] invece continua a vivere come testimonianza di verità la resistenza collettiva e individuale della gente che lavora. Anche quando sogna l’impossibile essa chiede maggiore giustizia e maggiore libertà, chiede di poter disporre meglio del proprio futuro e anche (perché no?) di stare un pochino meglio» (pp. 214-215).

È proprio quello che fecero gli operai che scioperarono nel marzo-aprile 1943, preceduti e seguiti per decenni da tanti lavoratori, impegnati a resistere contro chiunque gestisca il potere in modo dispotico, attentando alla libertà e ai diritti inviolabili della persona. È questa la lezione che ancora oggi, a tanti anni di distanza da quegli eventi, mantiene una straordinaria attualità.

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