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Rapporto USA-Ue ad alta tensione

Dazi, Ucraina, big tech e rapporti con la Cina: aumentano le divergenze tra le due sponde dell’Atlantico

 


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Si alza ogni giorno la soglia della tensione tra gli Stati Uniti e l’Europa. Tra dazi, minacciati e messi in atto, divergenze sull’Ucraina, ingerenze esplicite e tanto altro, l’impressione molto forte è che il punto di rottura sia ormai dietro l’angolo. Ma è davvero così? O, come sostengono alcuni commentatori, ci troviamo di fronte a un remake delle tante crisi che hanno scandito la storia delle relazioni transatlantiche dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi, ultima in ordine di tempo quella – all’epoca davvero lacerante – del 2002/3 sull’intervento militare in Iraq 

Risposte certe non sono date. E chi dà per scontata l’implosione dell’alleanza tra Stati Uniti ed Europa tende a dimenticare la profondità e l’alto livello d’istituzionalizzazione dell’integrazione transatlantica. Cementata ovviamente dalla NATO e dalla struttura difensiva comune; ma evidenziata anche da forme d’interdipendenza economica che non hanno a oggi pari, come evidenziano bene gli ampi volumi di scambi commerciali e, ancor più, gli investimenti che in entrambe le direzioni continuano a muoversi sullo spazio nord-atlantico (e che a dispetto di tante previsioni sulla decrescente centralità di questo spazio rimangono ancor oggi quattro volte superiori a quelli tra Usa e Asia).  

Il realismo trumpiano 

E però, forte è l’impressione che ci troviamo di fronte a un potenziale punto di svolta. Che a dispetto di tutte le tensioni e liti del passato, ci sia oggi qualcosa di davvero nuovo, a partire ovviamente dall’inquilino della Casa Bianca e dal tipo di politica estera che Trump sembra intento a promuovere. Una politica, questa, veicolata per il tramite di un lessico realista ruvido e primitivo, antitetico per tanti aspetti a quello, di suo molto ideologico, di un tradizionale atlantismo che sottolineava (e magnificava) la presunta, imperitura comunanza di valori, ideali e principi tra le due sponde dell’Atlantico e le loro democrazie. 

Il vocabolario anti-atlantista di Trump si nutre degli stereotipi di un’eurofobia che ha radici profonde nella cultura politica degli Usa e della loro Destra in particolare, e che è ritornata con forza negli ultimi dieci-quindici anni. È questa – la sottolineatura della naturale alterità dell’Europa – il primo elemento che pare contraddistinguere l’approccio trumpiano alle relazioni transatlantiche. È un’Europa altra nel suo tentativo di imbrigliare la libera impresa, nella sua inclinazione a produrre un elefantiaco apparato di norme e regole, nella sua debolezza militare e quindi nella sua dipendenza securitaria dagli Usa. All’alterità dell’Europa si aggiunge quindi nella narrazione trumpiana la sua patente, e per molti aspetti strutturale, subalternità. Questa Europa viene caricaturata come al contempo parassitaria e velleitaria; incapace, da sola, di garantire qualsivoglia sicurezza all’Ucraina eppure indisposta ad assecondare il dialogo statunitense con la Russia, pretendendo di prolungare un conflitto dall’esito già scritto. 

La terza via dell’Europa 

Strettamente intrecciate tra di loro, alterità e subalternità dell’Europa lasciano talora il campo alla terza rappresentazione dell’Europa, centrale ad esempio nel controverso discorso che il vicepresidente J.D. Vance ha tenuto alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco: quella del vecchio continente, e dell’Unione europea (Ue) in particolare, come minaccia se non addirittura nemico degli Stati Uniti. Su questo abbiamo forse la differenza più marcata rispetto a tante crisi euro-statunitensi del passato. A subalternità e alterità si aggiungono quindi l’ostilità e la competizione. Visibili in due ambiti principali. Il primo sta nel tentativo dell’Ue di promuovere politiche antitrust e di regolamentazione del big tech, che colpiscono alcuni interessi statunitensi oggi schierati (anche per questo) a sostegno di Trump. Provvedimenti che possono avere un effetto rispetto a un mercato, quello unico europeo, di certo importante per questi interessi. E che minacciano di costituire un precedente e un modello normativo per altri attori che ambiscono a introdurre forme nuove di regolamentazione.  

Il secondo ambito è quello dei rapporti con la Cina. Che per l’amministrazione Trump è il vero e unico rivale di potenza degli Stati Uniti oggi. E dalla quale ritiene si debba promuovere un accelerato disaccoppiamento economico, modificando le direttrici di fondo delle supply chain globali e togliendo a Pechino l’influenza e il potere di condizionalità che esse ancora le garantiscono. Gli Usa alcuni passi su questo li hanno compiuti, come mostra anche la contrazione degli scambi commerciali tra i due paesi. L’Europa (e la Germania su tutti) molto meno. Ed è qualcosa che l’attuale amministrazione repubblicana non sembra più essere disposta a tollerare. 

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