Articoli e inchieste

Produrre e lottare come esseri umani

Uno sguardo inquieto sulle pratiche di mobilitazione nel mondo del lavoro.  


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Il lavoro e i luoghi ad esso deputati sono ancora in grado di portare con istanze di trasformazione complessiva della realtà? Le fabbriche, gli uffici, i plessi scolastici, gli ospedali – le nostre case adibite a luoghi di produzione immaterialepossono rappresentare spazi di formazione di una coscienza critica capace di interrogarsi non soltanto su elementi di organizzazione della produzione e processo lavorativo, ma anche su questioni politiche e sociali di più ampio respiro? Sono queste domandeclassichedella riflessione teorica e politica circa lo stato di salute e il futuro della lotta di classe, che spesse volte trovano risposte parziali, moraleggianti, più simili ad ammissioni di colpe o ripartizioni inique delle responsabilità: la società dei consumi che ci ha assopiti, la sinistra e il sindacato che hanno abdicato alla loro funzione storica di rappresentanza delle istanze della classe lavoratrice, il senso di impotenza, ricatto e paura che ci tiene lontani da prese di parola, posizione, financo dalla mobilitazione collettiva. Sono tutte questioni legittimamente evocate, ma la cui lettura come monadi a se stanti impedisce, forse, di cogliere un mutamento più profondo della relazione tra identità personale, corpi collettivi e significato del lavoro – del cosa si fa per vivere, del cosa si fa per sentirci parte di una dimensione plurale, del cosa si può fare per migliorare le proprie condizioni di vita.

In questo numero di Pubblico raccontiamo il marzo del 1943 antibellicista e antifascista, inaugurato dalle lavoratrici e lavoratori di centinaia di fabbriche italiane, insorte/i contro la dittatura, il carovita e la guerra – «contro la fame e contro il terrore».  La centralità del lavoro nei processi di trasformazione sociale ha conosciuto importanti mutamenti rispetto a quel contesto, segnato dal rifiuto della dittatura fascista e da una cultura del lavoro plasmata dai partiti di massa e dalle organizzazioni sindacali

Se nel XX secolo il movimento operaio e le sue articolazioni hanno indubbiamente svolto un ruolo chiave nella conquista di diritti e nella definizione dei modelli di welfare, a partire da un dettato costituzionale imperniato sul valore del lavoro come fondativo della repubblica antifascista, oggi i rapporti di forza, l’arena politica, i luoghi della produzione e le soggettività che li attraversano sono profondamente diversi. Se si pensa alla rilevanza che l’astensione collettiva dal lavoro ha assunto in maniera diffusa in passato – come pratica di blocco e di contesa nel rapporto di forza tra capitale e lavoro affinché migliori condizioni di vita e di lavoro si materializzassero per quest’ultimo – e se pensiamo alla forza dei processi di sindacalizzazione, trainati parimenti da un orgoglio operaio e dal riconoscimento di un aumento delle probabilità di “contare” in un agire collettivo, che cosa resta di tutto questo oggi?

Ciò su cui è possibile interrogarsi, senza anacronismi o operazioni-memoria strumentali, è il significato del lavoro oggi rispetto alla possibilità di migliorare la propria vita e la società interamente.

Sono innumerevoli le voci, dall’accademia all’attivismo, fino alla politica istituzionale, che si sono misurate nell’ingrato compito di misurare la compattezza del legame tra senso della vita e senso del lavoro, in un continuum che si snoda tra il rifiuto di qualsiasi corrispondenza tra le due sfere, il riconoscimento di un progressivo delinking o la constatazione di una centralità ancora inscalfibile e incontestabile. E come testimonia il successo della piattaforma internazionale Democratizing Work, nel mondo della ricerca si fa sempre più strada la convinzione che solo attraverso la democratizzazione e de-mercificazione del lavoro, dunque ridare centralità di chi lavora nei processi decisionali e sganciare la tutela dell’occupazione dalle sole dinamiche di mercato, si possano rimettere in circolo energie e pratiche di mobilitazione che eccedono la dimensione vertenzialesalariale e abbracciano la trasformazione sociale nella sua interezza.

 L’esperienza del Collettivo di Fabbrica Gkn è stata ed è seminale. Nell’idea di «fabbrica socialmente integrata» il lavoro si configura come recupero della capacità di scegliere quale direzione dare alla propria esistenza.  

Voglio produrre per la militarizzazione dei territori e per la mobilità privata “fossile” o per la conversione ecologica dei mezzi pubblici e mezzi di produzione di energia pulita che non insistano sullo sfruttamento dei paesi del sud globale? Quanto welfare c’è nel mio salario – e quindi quanto devo lottare per la sanità pubblica e per l’accesso ai servizi essenziali, oltre a rivendicare più soldi? Quali sono le nuove sfide per vivere dignitosamente sul pianeta – quindi quanto devo spingere affinché quelle tematiche vengano assunte come priorità dalle organizzazioni sindacali che negoziano con la controparte? Sono solo alcune delle domande che le lavoratrici e i lavoratori in lotta dal luglio 2021 si sono posti nel fondare la cooperativa GKN for Future, futuro fulcro della sperabile riattivazione produttiva del polo fiorentino. Un cammino di lotta e progettualità che non si è mai illuso di arroccarsi fuori dal sistema capitalistico, ma che lo sta sfidando con la consapevolezza che per vincere lì occorre cambiare un sistema intero, comprese le organizzazioni sindacali, che progressivamente stanno assumendo l’urgenza di negoziare le transizioni, ma il processo di prioritizzazione non può dirsi del tutto compiuto. 

Sul fronte della rivitalizzazione del sindacato rispetto alle ragioni dei movimenti per la giustizia climatica, è da sottolineare l’esperienza tedesca di Wir Fahren Zusammen, un assemblaggio tra lavoratori del trasporto pubblico, Fridays for Future e il sindacato Ver.di che punta alla sensibilizzazione circa l’urgenza della decarbonizzazione delle flotte di autobus e per l’adeguamento salariale, un set di rivendicazioni portate avanti soprattutto attraverso lo “sciopero climatico” che diventa vettore congiunto delle istanze dei lavoratori, ma anche attraverso petizioni ed eventi nelle principali città tedesche, con epicentri a Lipsia e Jena.  

Un movimento, questo, che acquisisce ancor maggiore rilevanza a seguito delle elezioni tedesche – nell’ottica di consolidare più possibile alleanze progressiste – e che pone nuovamente la questione del blocco (della mobilità, in questo caso) come circostanza epifanica in cui non solo i fruitori toccano con mano l’importanza del servizio stesso, ma anche chi lavora, nella sospensione, torna in connessione con l’utilità sociale della mansione che svolge e ne riscopre un potenziale trasformativo che travalica la propria scrivania, banco, postazione. Non ultimo, i sindacati arricchiscono le proprie “cassette degli attrezzi” di nuove lenti e pratiche per rappresentare non solo interessi specifici, ma una più generale e composita domanda di cambiamento, in cui l’endiadi «pane e pace» non è mai stata così attuale.  

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