Per un mondo in cui essere noi stesse e uguali a nessun altro. Perché la parità sta nella differenza
“Bruciate tutto”, ma tutto cosa?
A un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin, giovane donna uccisa dal suo ex ragazzo l’11 novembre 2023, non possiamo dimenticare le parole della sorella Elena, che in una lettera pubblicata dal Corriere della Sera il 20 novembre dello scorso anno, aveva ribadito che il femminicidio non è un omicidio come un altro ma la conseguenza di una cultura patriarcale che non tollera il libero arbitrio di una donna. Chi uccide, aveva scritto Elena, viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. “Un mostro, infatti, è un’eccezione, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I ‘mostri’ non sono malati, sono figli sani del patriarcato”. Per questo motivo, aveva concluso Elena, “per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto”.
Elena citava in quella occasione terribile una poesia struggente di Cristina Torre Cáceres, poeta femminista peruviana: “Se domani sono io, mamma, se non torno domani, distruggi tutto. / Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”.
Non è stata l’ultima Giulia, nessuna donna, ragazza, sembra esserlo mai. Bruciate tutto, allora, ma tutto cosa?
Un nuovo senso alla parola “femminista”
Mentre leggevo Elena pensavo a quello che quasi cento anni fa aveva scritto Virginia Woolf nel suo saggio Le tre ghinee (1938) dove aveva suggerito di bruciare – proprio così, bruciare – la parola “femminista” perché ormai inutile: “Secondo il dizionario”, scriveva Woolf, la parola femminista “indica ‘una persona che si batte per i diritti delle donne’. Poiché l’unico diritto, il diritto di guadagnarsi da vivere, è stato conquistato, quella parola non ha più senso. E una parola senza senso è una parola morta, una parola corrotta. Celebriamo dunque l’occasione bruciandone il cadavere. Scriviamola a grandi lettere nere su un foglio protocollo; quindi con gesto solenne appicchiamo il fuoco. Guardate come brucia! (…) Ecco, il fumo si è diradato, la parola è distrutta. Osservi, Signore, il risultato della nostra cerimonia. La parola ‘femminista’ è distrutta; l’aria è ritornata pura, e cosa vediamo attraverso quest’aria chiara?”
L’unico diritto, il diritto di guadagnarsi da vivere. Ma sapeva bene Woolf che questo diritto non era sufficiente. Era stata lei stessa a indicare la strada delle ricerca di un altro senso delle parola femminista, un senso che si discostasse da quella ricerca di parità così chiaramente espressa dal dizionario.
La parità dovrebbe essere la base di una convivenza civile fra esseri umani, pari diritti, stesse opportunità. Ma poi?
La differenza nella parità
“La parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è un’altra cosa. Ci basta la parità salariale quando abbiamo già sulle spalle ore di lavoro domestico?”, lo avrebbero scritto Carla Lonzi, Elvira Banotti e Carla Accardi molti anni dopo, nel 1970, nel Manifesto di rivolta femminile (1970). E ancora: “La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli. Identificare la donna all’uomo significa annullare l’ultima via di liberazione. Liberarsi, per la donna, non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell’esistenza”.
Iniziava a farsi strada la questione della differenza, la differenza nella parità. Il corpo delle donne diventava il prisma attraverso cui guardare il mondo con un occhio nuovo, la rivoluzione copernicana della differenza, appunto. Ma come portare questa ricchezza nel mondo, nelle relazioni? Pochissimi anni dopo, nel 1973, Elena Giannini Belotti avrebbe scritto Dalla parte delle bambine (1973), un libro fondamentale per rispondere a questa domanda. Occorreva infatti, innanzitutto, spezzare “la catena di condizionamenti che si trasmette pressoché immutata da una generazione all’altra”. Non è semplice, aggiungeva Gianini Bellotti, ma ci sono momenti storici in cui simili operazioni possono risultare più facili che in altri. I primi anni Settanta sono stati senza dubbio uno di quei momenti: discussa l’idea di una naturale superiorità degli uomini sulle donne, degli adulti sui bambini, dei bianchi sui neri, dei ricchi sui poveri.
Ma non si è trattato – e questo è un punto nodale per capire cosa sarebbe accaduto negli anni a venire ma anche cosa non sarebbe accaduto – di far assomigliare le bambine ai maschi, “ma di restituire a ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi nel modo che gli è più congeniale, indipendentemente dal sesso cui appartiene”. Per questo, concludeva cinquanta anni fa Belotti, occorre mettersi dalla parte delle bambine: perché la loro differenza è lo scrigno che contiene il segreto per lottare per ogni tipo di differenza, di tutte e di tutti.
Oggi che di femminismo c’è bisogno come l’aria ricordare lo sguardo di queste sorelle del passato è fondamentale per mettere a fuoco con esattezza cosa dobbiamo bruciare.
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