“Educate i vostri figli”
“Protect your daughters”, recita la prima riga di un famoso manifesto, ‘Proteggete le vostre figlie’. Ma sul manifesto questa frase è barrata, e sotto è aggiunto “Educate your sons”, ‘educate i vostri figli’. Potrei dire che la differenza tra visione tradizionalista (rectius: patriarcale) della società e una progressista (rectius: femminista) passa da queste due frasi.
Secondo la prima prospettiva le donne, oltre che essere biologicamente inferiori (anche se oggi c’è qualche remora in più a dirlo in maniera così sfacciata), sono esseri deboli, incapaci di stare al mondo senza qualcuno che se ne prenda cura. Sono povere creature stordite, soggette a sbalzi d’umore (ché il ciclo mestruale, si sa, ci rende instabili), che hanno bisogno di un uomo che le difenda… da chi, esattamente? Ma dagli altri uomini, ovviamente (quest’ultima parte, però, sembra essere poco presente nella mente di chi si identifica nel primo slogan).
Nella prospettiva femminista (che non appartiene solo delle donne, ma è di qualunque persona voglia superare la visione patriarcale della società), invece, non andrebbe data per scontata né la propensione maschile alla violenza né la necessità di protezione da parte delle donne; al contrario, la risposta dovrebbe essere sistemica, portando non solo il genere femminile, ma anche quello maschile, ad acquisire nuove consapevolezze. Insomma, non è colpa delle donne se gli uomini possono essere violenti e non è compito esclusivo delle donne difendersi da tali violenze; la necessità di una performatività maschile (la famosa mascolinità tossica di cui tanto si parla) è uno dei tanti prodotti perversi del patriarcato, che, come è già stato detto tante volte, non lede solo le donne (o meglio, per allargare lo sguardo, i “secondi sessi”, come li definisce la filosofa anarcafemminista Chiara Bottici), ma anche gli uomini, costringendoli a una estenuante e perenne pantomima di virilità. Il famoso “uomo che non deve chiedere mai”, insomma, che ricorderete da una storica pubblicità.
Una cultura della violenza
C’è una rilevante differenza nella vita delle persone socializzate come donne e di quelle socializzate come uomini, a mio avviso. Una donna si rende conto abbastanza precocemente di essere, certo, un individuo, ma anche membro di una collettività, che è il genere femminile: essere donna, infatti, comporta una serie di difficoltà ancora oggi, anche nei paesi che definiamo “occidentali”, e ognuna di noi lo scopre, nel corso della sua esistenza. Non è così scontato andare in giro da sole, per esempio, muovendosi sicure nello spazio urbano, o fare carriera secondo le tappe consuete. La vita di una donna è costellata di mille piccoli fastidi in più rispetto a quella di un uomo: anche se sulla carta avremmo raggiunto la parità di genere, nella realtà le iniquità sono ancora molte. Si pensi solo all’impatto devastante che ha una gravidanza sulla carriera di una donna, rispetto al fatto che lo stesso evento ha conseguenze nulle sulla carriera del padre (cercate gli studi di Alessandra Minello sulla maternità e le statistiche di Donata Columbro per avere un po’ di conoscenze e numeri da opporre a chi vi contesta queste affermazioni).
Gli uomini, d’altro canto, non sono tenuti a questa presa di coscienza: essendo il maschile il genere base, quello a misura del quale è costruito il mondo, non sono costretti a scoprire per forza la loro appartenenza al proprio genere e le implicazioni di questo. Per questo, può essere difficile per un uomo riconoscere di poter avere dei comportamenti sistemici, legati al suo essere un maschio, e dei quali magari non è pienamente consapevole (ad esempio, il modo in cui tende a occupare lo spazio fisico, ma anche di parola). E questo porta molti a reagire con stizza quando si parla di piramide della violenza: “Non facciamo di ogni erba un fascio”, dicono alcuni. “Non tutti gli uomini…”. È ovvio che – per fortuna – non solo non tutti gli uomini, ma la maggior parte degli uomini non si comporti in maniera violenta con le donne (soprattutto quelle considerate “proprie”). Ma è altrettanto vero che è più facile essere compartecipi di una cultura che funge da humus per violenze indicibili; una cultura che a volte parte dai commenti “da bar”, dall’idea che sia normale classificare le donne che si hanno intorno in base all’avvenenza anche in ambito lavorativo, o che non ci sia nulla di male nello scambiarsi in chat commenti sulle colleghe come “io quella la metterei a pecorina” et similia. La scarsezza di una coscienza collettiva maschile non permette a molti di cogliere la differenza tra sistemicità (la violenza di genere è sistemica, cioè è intessuta nel modo in cui funziona la società) e sistematicità (la violenza di genere non è sistematica: non è automatica e inevitabile).
Nuovo maschilismo, vecchie abitudini
Il nuovo maschilismo non è diverso dal vecchio maschilismo: si tratta sempre di considerare le donne inferiori, o più precisamente, gli uomini superiori; di accusare le donne dei mali dell’uomo: nella filosofia incel – da involuntary celibate – gli uomini non riescono a trovare una compagna perché le donne vogliono solo maschi belli e ricchi – i chad; insomma, è tutta colpa delle donne, e quindi è giusto trattarle per quello che sono: delle stronze opportuniste. È la più diffusa forma di othering, di alterizzazione, presente sul nostro pianeta: il “noi” in questo caso è il genere maschile, il “loro” quello femminile, che, come ha affermato recentemente Donald Trump, deve essere difeso, che le donne lo vogliano o meno (dato che, in quanto tremebonde fanciulle, non possono avere una loro volontà indipendente).
Se è più facile rendersi conto del maschilismo quando è apertamente offensivo (le donne definite oche, o streghe, o puttane, o frigide), è più difficile individuarlo quando sembra preoccuparsi del “sesso debole”; ma per quanto l’idea di essere delle damsel in distress, delle damigelle in pericolo, possa offrire un’attrattiva, anche quella sul piedistallo è una posizione di passività. Attenzione, quindi, all’ideale della protezione, perché sottintende che le donne non siano in grado di agire per conto proprio, di decidere per sé, di essere, insomma, individui indipendenti.
D’altro canto, una donna impegnata a recitare la parte della fanciulla da proteggere, a essere bella, a stare composta, a non invecchiare, a essere madre amorevole dei suoi figli, non ha tempo di fare politica o di pensare all’emancipazione: non è un caso se un momento importantissimo della storia del femminismo è stato l’avvento della pillola anticoncezionale, che ha permesso alle donne di prendere in mano le redini della propria fertilità. Tenere le donne occupate a fare figli è un ottimo modo per evitare che si facciano venire “strane idee”, ad esempio quella di essere pari agli uomini.
La principessa non vuole essere protetta
In questo momento, tra un neopresidente degli Stati Uniti che vuole proteggere le donne, volenti o nolenti, una senatrice italiana che ritiene occorra rendere la maternità di nuovo cool (sic) per le giovani, il progressivo soffocamento della voce delle donne in tanti regimi in giro per il pianeta, ad esempio nella teocrazia iraniana o in quella afgana, i richiami costanti al “dono della maternità” perfino da una parte del mondo che si definisce femminista, la sensazione di avvicinarsi sempre di più a quella distopia descritta da Margaret Atwood nel “Racconto dell’ancella” è sempre più forte. Del resto, ricordiamo che Atwood, accusata di perversione per essersi immaginata simili brutture, aveva replicato di essersi limitata a mettere in fila cose già successe in qualche tempo e in qualche luogo. Non aveva inventato nulla, insomma.
Essere principesse – o trad wife, mogli tradizionali, uno dei tanti nuovi modelli di femminilità che potreste incontrare sui social: una moglie bella, sempre curata, madre modello, dedita alla cura della casa, alla cucina e alla panificazione, non di rado anche pia – offre le sue attrattive, senza dubbio. Peccato che tra i vantaggi di questi modelli femminili non rientri la libertà.
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