Le proteste scoppiate in Iran dopo l’uccisione di Mahsa Zhina Amini, il 16 settembre 2022, hanno fatto tremare il regime, che però non è ancora caduto. Qual è oggi la situazione nel Paese?
Le donne iraniane continuano a far tremare il potere, che le considera una minaccia e le teme. La caduta di un regime è tuttavia una questione complessa. Il contesto geopolitico attuale non lascia presagire che un’eventuale caduta del regime porterebbe automaticamente alla democrazia. Per questo è fondamentale un processo di transizione non violenta affinché la società civile possa organizzarsi con la creazione di partiti politici e l’indizione di elezioni libere. Un cambiamento di questo tipo difficilmente può avvenire dall’oggi al domani.
Come è nato il movimento “Donna, Vita, Libertà”?
Negli ultimi anni si sono susseguite ondate di proteste, sempre più ravvicinate. Nel 2019 le manifestazioni si sono diffuse dopo l’aumento del prezzo della benzina. In quell’occasione il regime è riuscito a bloccare Internet per più di una settimana, reprimendo in modo feroce il dissenso. A mio avviso, se non fosse stato per la pandemia, quelle proteste sarebbero potute durare più a lungo.
Nel settembre 2022 le manifestazioni sono poi sfociate nel movimento “Donna, Vita, Libertà”, di cui le donne sono leader. La loro è una lotta non violenta, una forma di disobbedienza civile che sfida quotidianamente un regime che, di fatto, impone un apartheid di genere. Una caduta del regime causata da ingerenze straniere o, come alcuni auspicano, da un intervento militare, non è la soluzione auspicata dalla parte progressista e non violenta del movimento “Donna, Vita, Libertà”, di cui io stessa mi sento parte.

Quali sono le caratteristiche e gli obiettivi di questa forma di resistenza?
“Donna, Vita, Libertà” è una filosofia di resistenza non violenta. La prima persona che ha parlato di questa visione è stato Abdullah Öcalan in riferimento alla lotta del popolo curdo. Queste parole sono state usate dalle donne curde che combattevano l’ISIS e, dopo l’uccisione di Mahsa Zhina Amini, sono entrate anche in Iran. Sono state le donne curde della sua città natale a gridarlo per prime ai funerali.
Molte attiviste sono in carcere, altre hanno dovuto lasciare l’Iran, altre ancora sono state interdette da qualsiasi attività politica nel Paese. Eppure, continuano a portare avanti questa resistenza, che si manifesta, ad esempio, nella lotta contro l’obbligo del velo, per il diritto di scegliere liberamente come vestirsi.
Perché è importante la solidarietà tra donne nella resistenza al regime?
La solidarietà tra donne è fondamentale ed è ciò che sta portando l’Iran verso un cambiamento enorme: un cambio di paradigma culturale e sociale, che per la prima volta mette la tutela delle donne al centro della lotta non violenta.
Nonostante le leggi misogine del Paese, le donne iraniane sono riuscite a diventare protagoniste della resistenza. Hanno creato organizzazioni non governative, reti di attivismo, centri per la difesa dei diritti umani, dei minori e contro la pena di morte. Si sono spinte nelle regioni più remote, dove lo Stato è assente e la repressione è feroce. Parlare di diritti umani in Iran non significa dipingere le donne come vittime: al contrario, sono loro il motore del cambiamento e le protagoniste.
Come può la comunità internazionale sostenere le donne iraniane?
La comunità internazionale può aiutare non legittimando il regime. La Repubblica Islamica ha ormai perso la legittimità agli occhi di una grande parte della popolazione, che ha espresso il proprio dissenso in molte occasioni. Per questo la comunità internazionale non deve prolungarne l’esistenza.
Che ruolo può giocare la stampa nella battaglia per il riconoscimento dei loro diritti?
Il contributo dei media, dei giornalisti e degli attivisti è fondamentale per mantenere alta l’attenzione. Lo abbiamo visto in passato: le campagne internazionali hanno contribuito a salvare vite umane. Penso al caso di Toomaj Salehi, il rapper condannato a morte per le sue canzoni: la sua esecuzione è stata annullata grazie alla pressione dell’opinione pubblica. La mobilitazione conta e può fare la differenza.
È in sala il film Il seme del fico sacro del regista iraniano Mohammad Rasoulof. Il cinema rimane uno degli strumenti più potenti di resistenza culturale?
Il film mi ha colpito molto, soprattutto nella parte finale, che mostra come la solidarietà tra le donne possa portare, alla fine, all’eliminazione del patriarcato e della violenza di genere. Il punto centrale del film è che evidenzia come la generazione Z, protagonista del movimento Donna Vita Libertà, sia contro la violenza. La giovane protagonista non colpisce il padre violento, ma spara per terra. Questa azione fa crollare l’edificio di roccia e, simbolicamente, dimostra come la forza, la solidarietà e la lotta non violenta delle donne seppelliranno il regime sotto il proprio marciume.
Quando ha deciso che non sarebbe più tornata in Iran?
L’ultima volta che sono andata in Iran è nel 2022, poche settimane prima dell’uccisione di Mahsa Zhina Amini. Pur essendo consapevole del rischio di venire arrestata per la mia attività, ero sempre tornata nel mio Paese almeno una volta l’anno. Dopo l’uccisione di Mahsa, ho però deciso di pagare il prezzo, che per me è altissimo, di non tornare. Di fronte a quello che sta succedendo ai miei connazionali, mi è sembrato giusto. Resto comunque in contatto continuo, giornaliero con la realtà delle donne iraniane.