Il Vecchio Continente è considerato il ventre molle della NATO dal 47° presidente USA e i suoi tecnocrati di corte
Non solo isolazionismo, quindi. Il piano è controllarne infrastrutture e tecnologie in chiave anti-cinese.
Nella vittoria alle elezioni presidenziali, Donald Trump ha costruito un’offerta politica che innervato tre arterie elettorali.
I populisti, cioè l’elettorato rurale composto dalle classi medie e lavoratrici degli stati centrali, questa volta integrato da una crescita del consenso tra le minoranze etniche; l’elettorato tradizionale repubblicano, legato alla libertà di impresa e ai valori tradizionali, che ha votato Trump per mancanza di alternative nel partito e di una offerta democratica convincente; il nuovo nucleo di consenso, piccolo ma influente, trainato dalla Silicon Valley e da Wall Street, che in questa elezioni hanno svoltato a destra sposando le idee trumpiane sul fisco, sul protezionismo, sulla ri-teritorializzazione del capitalismo manifatturiero, su una postura più aggressiva verso gli alleati.
La coalizione di interessi dell’amministrazione Trump II si caratterizza per essere una sorta di “accelerazione reazionaria” in grado di tenere insieme sia il futurismo richiesto dai tecnologi e dai loro finanzieri che puntano allo sviluppo industriale, alla deregulation e alla sburocratizzazione sia la reazione del popolo di stretta osservanza trumpiana che richiede protezione dalla globalizzazione e dall’immigrazione e rifiuta la pedagogia progressista.
Project 2025: un nuovo ciclo conservatore
Ci si chiede come il progetto trumpiano si leghi alla corposa agenda “Project 2025”, elaborata dalla Heritage Foundation, un prestigioso think tank conservatore nato nell’era reaganiana. Durante la campagna elettorale Donald Trump ha cercato di prendere le distanze dal documento, che pende di più verso la reazione che l’accelerazione in particolare per quanto concerne diritti civili (aborto) e guerra culturale al progressismo.
Possiamo dire che Trump, con la sua variegata coalizione, è meno ideologico del programma sciorinato dalla Heritage Foundation. Non mancano tuttavia alcune similitudini: il progetto di smantellare pezzi dello Stato amministrativo, con la chiusura di numerose agenzie federali; l’avversione alle politiche green; l’idea di un ampio rimpatrio degli immigrati regolari; l’aumento delle posizioni burocratiche soggette allo spoil-system invece che al merito; la riforma del Dipartimento della Giustizia, percepito come troppo potente nei confronti della Presidenza. Anche se la sovrapposizione non è totale, entrambi i programmi bene esprimono la concezione di una democrazia populista che si accoppia con idee fortemente conservatrici. Un programma che, se realizzato in forma integrale e le incognite che ciò possa davvero accadere sono molte, porrebbe fine alla democrazia progressiva e liberale costruita da Franklin Delano Roosevelt fino a Joe Biden e rafforzata dal consenso sulle dinamiche della globalizzazione condivise da Democratici e Repubblicani fino al 2008. Ciò non implicherebbe il tramonto della democrazia in America o il collasso della separazione dei poteri, almeno fino a che la Costituzione resterà immodificata, ma segnerebbe l’ingresso in un ciclo politico nuovo i cui contorni hanno già iniziato a presentarsi dal 2016.
La tecnocrazia alla corte di Trump
L’evidenza è che un pezzo consistente di establishment americano ha scelto di unirsi a Trump questa volta. Il secondo mandato del tycoon non è un incidente della storia come quello del 2016, ma rappresenta un mutamento profondo negli orientamenti della élite americana che ha appunto accettato un compromesso col populismo. Non c’è soltanto Musk con il suo Dipartimento per migliorare l’efficienza del governo e la sua rete internazionale dei partiti di destra, ma un vasto mondo di capitalisti tecnologici e investitori la cui figura di riferimento è senza dubbio Peter Thiel, fondatore di PayPal e leggendario venture capitalist, con le sue idee tecno-libertarie ispirate da un intellettuale dell’alt-right come Curtis Yarvin. Ma non è soltanto il mondo tech a muoversi, poiché con un atteggiamento di sostegno o comunque aperto al dialogo ci sono anche esponenti dell’ala nobile del capitalismo americano come il CEO di Blackstone Steve Schwarzman, il gestore di hedge fund Bill Ackman, il Presidente di JP Morgan Jamie Dimon che nell’ultimo Davos spiazzò molti sostenendo che Trump avesse ragione su varie questioni. Mentre tra gli ultimi a salire sul carro sono stati altri due grandi titani della nostra epoca come Jeff Bezos e Mark Zuckerberg.
Ciò si è tradotto, anche sul piano culturale ed economico, nella dismissione da parte di molte grandi aziende di quei programmi di diversità e inclusione che avevano caratterizzato le policy aziendali dell’ultimo decennio. Sono decisioni che partono dai vertici e che servono sì per compiacere Trump sul piano politico ma anche per liberarsi della burocrazia di una cultura woke che non è riuscita a mettere solide radici nella società provocando al contrario una brutale reazione. Insomma, il Trump II ha scardinato l’unità dell’establishment americano, ha costruito un nuovo mainstream comunicativo, ha cambiato il quadro politico nazionale e globale.
La punta di diamante, quella più visibile a livello internazionale, di questo progetto resta Elon Musk. Egli non è soltanto l’ispiratore della destra internazionale, una definizione forse iperbolica di cui gran parte della sinistra europea si è convinta, ma per l’amministrazione Trump egli vorrebbe interpretare insieme ai suoi sodali dell’industria tecnologica, per usare una analogia storica, il ruolo di una nuova Compagnia delle Indie Orientali, la società privata di mercanti che ha permesso all’Impero britannico di controllare ed espandere i possedimenti coloniali e di sbarrare il passo alle rotte degli avversari per quasi due secoli.
Missione Europa
Di qui il fiancheggiamento delle forze di destra radicale europea e l’interesse nelle regole europee e nei contratti governativi dei paesi europei da parte del tycoon e di un pezzo dell’establishment. Allargare il mercato delle aziende tech americane e far di esse attori strategici per Washington in Europa sfruttando l’ascesa dei nuovi partiti nazional-populisti simpatetici al trumpismo: è questa l’altra faccia dell’America first che integra il protezionismo. Qui si svela il pezzo nascosto del piano verso l’Europa che s’innesta sull’arretratezza industriale e tecnologica, sul nanismo militare e la modestia politica del vecchio continente. L’Europa è considerata il ventre molle dell’alleanza atlantica dalla nuova politica americana, se da un lato va infatti incentivata a spendere in armamenti dall’altro è necessario per Washington controllare i nodi strategici delle infrastrutture e delle tecnologie che in assenza di forniture europee potrebbe finire ai cinesi.
La catena dell’Impero americano verso gli alleati si sta accorciando per avere maggior presa all’interno di una contesa tra grandi potenze entro cui i paesi europei non rientrano. L’accelerazione reazionaria, dunque, sul piano della politica estera non è soltanto isolazionismo: c’è senza dubbio l’idea che il mondo oggi sia troppo grande per gli Stati Uniti e quindi la necessità che sul piano militare gli alleati contribuiscano maggiormente alla sicurezza, ma c’è anche il progetto di aumentare la presa sui nodi fondamentali del potere, politico, infrastrutturale e tecnologico, attraverso decisioni politiche e attori privati.
_____________