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Ma comando io!

La doppia comunicazione – tra romanesco e poliglottismo – consente a Giorgia Meloni di apparire sia come “una di noi” che come figura di potere, in grado di evitare i fatti producendo il “grande bluff”


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Per capire come comunica Giorgia Meloni bisogna cominciare dalla lingua che parla. Meloni usa un lessico semplice, con pochi tecnicismi, pochi termini colti e molte parole che si riferiscono alle esperienze ordinarie di chi ascolta. Dal punto di vista sintattico, organizza le frasi con una dominanza della paratassi sull’ipotassi, cioè preferisce frasi coordinate brevi e autonome a lunghi periodi di subordinate. Meloni si esprime in modo diretto, concreto, vicino a come parlano le fasce meno colte della popolazione. In questo, però, non fa nulla di nuovo, ma riprende una tendenza che il centrodestra cominciò già all’inizio degli anni Novanta, quando i protagonisti erano Berlusconi, Bossi e Fini.

Giorgia Meloni
Un frame che ritrae Giorgia Meloni poco prima delle elezioni in Italia (2022)

Ma c’è di più. Infatti, anche se Meloni si rivolge a una platea nazionale, la sua lingua è impastata, non solo nell’inflessione, ma nel lessico, nella sintassi e negli intercalari, di dialetto romanesco. E anche se questa caratteristica è spesso criticata dai media e parodiata dai comici, Meloni riesce a condire il suo parlato con dosaggi di romanesco che superano con efficacia i limiti regionali.

Una lingua condita di romanesco, infatti, porta già in sé la combinazione di queste due aree semantiche: “sono una di voi” e “sono io che comando”. È qui che nasce l’illusione che il potere, poiché esercitato da “una di noi”, non possa che essere “a favore di noi”.

Una base linguistica, tre registri

Ciò è possibile anzitutto perché il romanesco, storicamente influenzato dal toscano, è da sempre più affine all’italiano di molti altri dialetti, per cui è comprensibile anche a chi non vive nell’area. Inoltre, dagli anni Cinquanta in poi, la diffusione di prodotti televisivi e cinematografici con protagonisti romani (attori e attrici, conduttori, comici, giornalisti e giornaliste) ha progressivamente intriso questo dialetto di significati e valori positivi. Grazie a decenni di cinema e tv, infatti, la parlata romanesca oggi evoca fama, ricchezza, mondanità (la “dolce vita”), ma anche potere o almeno vicinanza a chi lo detiene (a Roma stanno Montecitorio, Palazzo Chigi, il Quirinale).

Forte di questa base linguistica, Meloni è fin qui riuscita a giocare con più facilità di altri leader la strategia comunicativa ambivalente tipica del centrodestra, da Berlusconi, Bossi, Fini a Salvini: collocarsi dal punto di vista degli strati meno colti e meno abbienti della società, riproducendo il loro modo di parlare e pensare, ma piegare questa sensibilità alle esigenze del potere, anche quando queste contrastano o negano le necessità delle fasce sociali che dovrebbero interpretare.

Una lingua condita di romanesco, infatti, porta già in sé la combinazione di queste due aree semantiche: “sono una di voi” e “sono io che comando”. È qui che nasce l’illusione che il potere, poiché esercitato da “una di noi”, non possa che essere “a favore di noi”. È da questo che nasce il consenso di cui tuttora gode la Presidente del Consiglio.

Al di là delle particolarità linguistiche, Meloni fa altro. È infatti abile nell’adattare la propria comunicazione al contesto e al pubblico. Emergono così almeno tre Giorgia Meloni: quella che nelle sedi istituzionali, italiane e internazionali, usa un linguaggio medio-alto e dà prova di conoscere le lingue; quella che in televisione, nelle conferenze stampa e sui social media, pur parlando da Presidente, inserisce espressioni colorite e fa smorfie e mossette per generare identificazione con il pubblico che le è vicino e con quello che potrebbe avvicinarsi; quella infine più libera, quando parla solo ai suoi e torna simile a com’era prima di governare, nelle piazze e all’opposizione.

Come parla l’avversario politico

Ma in politica non si capisce la comunicazione di nessuno, se non la si inquadra anche in relazione agli avversari. L’efficacia di Meloni, infatti, aumenta in proporzione all’inefficacia di Elly Schlein, da un lato, e Giuseppe Conte, dall’altro. E ovviamente diminuirebbe, se i due cambiassero rotta. Ma in cosa sbagliano, Schlein e Conte, sì da regalarle più vantaggi di quanti ne avrebbe da sola?

Schlein si inserisce nella tradizione comunicativa che da sempre caratterizza la sinistra italiana e ha seguito la filiera Pci-Pds-Ds-Pd, una tradizione talmente radicata da aver assorbito anche lei, che all’inizio ne prendeva le distanze. A differenza di Meloni, Schlein parla un linguaggio alto, fatto di espressioni astratte e poco riferite alla realtà di tutti i giorni, con frasi lunghe e periodi dominati dall’ipotassi, cioè costruiti sulla subordinazione. Parla il politichese tipico della sinistra, insomma. Certo, ha il vantaggio di comunicare passione e autenticità: si capisce che crede in ciò che dice. Ma difficilmente Schlein aggancia a fatti concreti la sua spinta ideale, proprio per il linguaggio complesso e astratto.

D’altro canto, i 5 Stelle, che pure avrebbero buone potenzialità comunicative perché sui contenuti sono spesso vicini alla vita concreta delle persone, di fatto scontano il problema di un leader che non riesce a bucare, un po’ perché passa poco in televisione, un po’ perché Giuseppe Conte ha sempre l’aplomb del professionista che dall’alto offre consulenze.

Giuseppe Conte, Elly Schlein
Giuseppe Conte, Elly Schlein

Evitare i Fatti

In questo quadro, ovvio che Meloni convince di più. Ma attenzione: anche eccedere in ammiccamenti, come spesso lei fa, alla lunga porta le persone a viverli come manipolatori e ingannevoli. Specie se alle parole, pur concrete, non seguono i fatti. Ricordiamo che, per un governo, comunicare bene, in modi e tempi giusti, ciò che ha fatto, fa e farà è sempre la strategia migliore. Qualcosa che però in Italia, a destra come a sinistra, si tende a evitare. Specie se i fatti sono pochi, sbagliati o non vantaggiosi per le persone che li ascoltano.

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