Non perdiamo di vista Ahoo Daryaei, la ragazza che ha protestato, svestendosi e restando in mutande, contro le oppressioni del regime di Teheran due settimane fa. Non è solo un problema di giustizia, ma anche un modo per dichiarare dove, come, e con quali retoriche si dispieghi oggi il monopolio dell’uomo sulla donna.
Non uso a caso questa espressione. Il riferimento è alla conferenza che Anna Kuliscioff al Circolo filologico milanese sulla disparità uomo-donna il 27 aprile 1890.
Con il termine monopolio, Kuliscioff intendeva rivendicare un’emancipazione che era soprattutto riscatto che si sostanziava di varie cose: un sapere conquistato con fatica; un ruolo pubblico che anche da quel sapere discendeva e che con molta riluttanza il mondo maschile non riconosceva – non solo nelle classi alte o nelle formazioni politiche borghesi, ma anche nelle classi basse e nel mondo socialista.
La battaglia allora era per il riconoscimento del diritto al voto (ricordiamo che in Italia arriverà solo con il referendum per la repubblica come ci ha ricordato di recente Paola Cortellesi nel suo C’è ancora domani) ma anche per la parità di trattamento nel mondo del lavoro, nel pari riconoscimento delle competenze a parità di preparazione.
Essere pari è stato a lungo nel corso del ‘900 il canone per le donne per porre il tema della necessaria riforma della politica. Togliersi il giogo dal collo rappresentato dal rigido controllo sulla vita quotidiana, e godere delle libertà minime: di movimento, di lettura, di frequentazione, di amministrazione del proprio tempo.
Quella lotta non è finita, anzi per certi aspetti è tornata centrale in un tempo segnato dalla «voglia di ordine».
Oggi la forma dell’organizzazione politica è “ordine”. Nel tempo della crisi del partito politico moderno, le forma aggregative che lo hanno sostituito proponendosi come “nuove” non hanno segnato una pratica di maggiore autonomia e libertà.
Il modello di riferimento è diventata la setta spesso con tratti propri delle esperienze religiose fondamentaliste. Vale a Est come a Ovest, a Sud come a Nord e riguarda tutti i sistemi di fede attraversati da un identico fenomeno: l’egemonia o il radicamento profondo tra le proprie fila di una mentalità fondamentalista che trasforma le pratiche religiose in affiliazione settaria.
In quella dimensione settaria torna la prevalenza del maschio sulla femmina.
Non significa automaticamente che le donne «siano state riportate a casa».
Quelle realtà non escludono che si mantenga nelle forme ciò che un tempo era proposto come pratica di «emancipazione» (per esempio la possibilità della donna di acquisire il diritto al lavoro e dunque di uscire di casa). Ma percepire uno stipendio non è letto come «emancipazione». Semplicemente è consentire alla parte maschile di dedicarsi allo studio dei testi sacri o di esprimere comando. Pratica che è presentata come la detenzione di sapere/potere e quindi intesa come quello strumento che riproduce il precedente sistema gerarchico, di sapere, di controllo, di valori.
Quella emancipazione attraverso il lavoro, in realtà non è emancipazione: è solo tecnica per ribadire l’ordine precedente che non sopporta di essere infranto.
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