Lo sconfinamento è ascolto: voci al di là dello specchio


Articolo tratto dal N. 25 di

Non siamo un hashtag

Le nuove generazioni, già nell’evocazione, sono etichettate e consegnate al loro silenzio o alle altrui narrazioni: “sconfinare” dagli stereotipi significa quindi, primariamente ascoltare. Lo sguardo per farsi “prismatico” e sciogliere le etichette deve essere nomade, deterritorializzato.

Il progetto Scuola sconfinata – nato nel 2020 in collaborazione con Fondazione Giangiacomo Feltrinelli – in un focus group ha chiesto a due classi di un liceo delle scienze umane: quali etichette vi sentite addosso? Come la scuola può essere politica?

“Gli sdraiati” 

Iris afferma – Quelli delle generazioni passate ci danno dei fannulloni, dei nullafacenti. Spesso i ragazzi sono oppressi, già dalla scuola vengono martellati, con una serie di richieste, anche a casa. Siamo descritti come dipendenti da smartphone o altre tecnologie… svogliati, di non avere lo stesso impeto delle generazioni passate… il famoso “io alla tua età” –

Per Christian, i giovani sono etichettati come svogliati, stanno attaccati al telefono e non rispettano le regole,  un’opinione condivisa anche da Rocco – Svogliati, disinteressati allo studio, dipendenti da genitori e insegnanti, manipolabili, senza motivazioni. –

Gaia sostiene che i giovani sono vittime di etichette superficiali, dipinti come pigri, incapaci di affrontare la vita adulta, ma talvolta questi giudizi ignorano le difficoltà reali di un mondo sempre più complesso e competitivo. Le etichette non solo sono ingiuste ma possono anche limitare le possibilità dei giovani, alimentando la sfiducia nelle istituzioni, per cambiare questa visione è fondamentale un’educazione che li renda cittadini attivi, insegnando loro a comprendere il potere, a partecipare al dibattito pubblico, a sviluppare un senso critico. Serve quindi un rinnovamento del sistema educativo che valorizzi il contributo delle nuove generazioni e promuova la partecipazione civica.

Sara rileva soprattutto etichette relative alle differenze personali, legate al rendimento scolastico o alla cultura d’appartenenza.

Per quanto riguarda la politica a scuola, Ilaria e Alice ricordano il regolamento interno, diritti e doveri, una scuola che costruisce cittadini, ma anche l’eccesso di burocrazia. Rocco, Valentina, Milena evocano la Costituzione, come diritto allo studio ma anche base di una cittadinanza democratica, oltre a citare Dewey, la partecipazione attiva: “la scuola è democrazia”.

La dipendenza dalla tecnologia 

Nella classe quarta, Aline ritiene che i giovani vengano ritenuti “viziati, perché cresciuti in un’epoca di abbondanza, sempre al telefono. Gli adulti vedono la tecnologia solo come un problema senza capire il suo ruolo nella vita sociale e culturale dei ragazzi, senza valori perché non seguono i modelli tradizionali, apatici e disimpegnati; perché se non si attivano in forme tradizionali vengono considerati indifferenti, ignorando il loro attivismo in spazi nuovi”.

Sempre secondo Aline la scuola come mezzo per abbattere queste etichette dovrebbe dare ai ragazzi più voce. Nelle discussioni e nelle decisioni, non ci si dovrebbe basare solo sui voti e affrontare temi più attuali a lezione e insegnare il pensiero critico, in questo modo la scuola non fa politica in senso partitico ma aiuta a diventare più consapevoli.

Nicolò ed Elena sottolineano le etichette rigide di adulti, genitori e insegnanti, che limitano l’identità, oltre a stereotipi di genere. I voti rafforzerebbero queste identificazioni riduttive. Il digitale offre un ulteriore spunto per l’etichettamento personale.

La scuola, il futuro, l’autodeterminazione 

Veronica, Ginevra, Martina, richiamano le figure del “secchione” e del “somaro” – La scuola dovrebbe valorizzare di più i talenti individuali. Dovrebbe offrire degli strumenti per affrontare meglio il mondo esterno. Coinvolgere anche i ragazzi in quello che è il mondo reale, quindi in esperienze, concrete, in una cittadinanza attiva. Dovrebbe essere un ambiente in cui gli errori sono legittimati e dovrebbe insegnare a sbagliare e riprovare. –

Rayan fa una panoramica sull’etichettatura riduttiva operata dalla scuola, proponendo di togliere i voti e promuovere la partecipazione. Rika, Ayesha e Hamda ribadiscono di sentirsi definite come appartenenti alla generazione del digitale – Non leggiamo eppure siamo esposte a qualsiasi tipo di media – propongono che la scuola dedichi alla lettura dei libri alcune ore di lezione.

Nel pomeriggio, invece, abbiamo incontrato Adele, nata nel 2000, ha studiato lettere, ora studia antropologia, è tra le promotrici e sta organizzando il primo Pride nella sua città.
Alle nostre domande risponde così – Uno dei luoghi comuni sulle persone giovani è che siano il nostro futuro e in quanto tali debbano essere formate per diventarlo. Questa concezione rischia però di sottovalutare il ruolo attivo e consapevole delle persone giovani nel presente, come anche il loro ruolo nel processo di apprendimento. La dinamica di insegnamento spesso sembra essere percepita da tutti gli attori monodirezionale e “assoluta”. –

Negli ultimi anni sembra esserci una tendenza nel raccontare le generazioni più giovani come “confuse”, continua Adele – A livello di sessualità, identità, futuro. Il progresso dei social network, di internet in generale, dell’informazione che si velocizza sono spesso raccontati come fattori di disattenzione e confusione. Sentiamo troppe cose, ne ascoltiamo solo alcune.

I giovani hanno avuto effettivamente presto accesso ad un database enorme di qualsiasi tipo di informazione. Forse sta anche alla scuola capire come sfruttare questa esposizione in modo positivo anziché demonizzante, in un modo che mette ancora più distanza tra studente e insegnante. Anche perché pure se la soglia dell’attenzione sta calando (pare), difficilmente la colpa è dei singoli, più probabile sia del sistema, dunque l’analisi va fatta forse su cosa fare a livello didattico per accompagnare i cambiamenti invece di snobbare le novità.

Le questioni identitarie assumono sempre più centralità nel discorso pubblico. Si parla di nuovi termini per definirsi a livello di provenienza familiare, orientamento sessuale, identità di genere. Quello che viene chiamato politically correct forse è il tentativo di andare verso un mondo un po’ meno escludente e con categorie un po’ meno rigide. In cui l’autodeterminazione è la cosa essenziale e le parole se feriscono qualcun* possono cambiare.

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