“Sono profondamente convinta che, l’essere stata la prima donna eletta Segretaria generale della CGIL, dipenda dalla lunga stagione di militanza delle donne che si sono date strutture autonome nel sindacato. Oggi la cosiddetta rottura del tetto di cristallo è stata trasformata sempre più in una questione individualista”. Susanna Camusso si definisce così figlia di una storia collettiva di cambiamento, che il 4 novembre 2010 l’ha condotta alla guida della Confederazione generale italiana del lavoro.
La senatrice del Partito democratico cominciò l’attività sindacale nel cuore degli anni Settanta, nel corso degli studi universitari, per poi divenire dirigente della FIOM milanese e lombarda fino alla segreteria nazionale del sindacato dei metalmeccanici della Cgil. Il lavoro è stato dunque al centro del suo impegno da sindacalista e oggi da parlamentare: “Per parlare di lavoro occorre un linguaggio che oggi non esiste più”, sostiene Camusso. “Non si sa più cosa sia diventato il lavoro”.
Nella sua analisi il presupposto per un nuovo vocabolario della sinistra è il riconoscimento del fallimento del disegno liberista: “Si dovrebbe avere il coraggio di ammetterlo. Nel mondo si è pensato che uno degli elementi della crescita fosse la diminuzione delle cosiddette rigidità del lavoro, o meglio delle tutele della dignità del lavoro, e si è proceduto verso le forme di precarizzazione. Ciò non ha determinato un’estensione dei diritti per le nuove generazioni, anzi li ha deteriorati”.
“Ogni volta che avevo un dubbio andavo ai cancelli delle fabbriche a chiedere agli operai come fare le cose in questo Paese”, diceva il Presidente Lula. Quella di ascoltare i lavoratori resta una buona pratica?
“Sono uno straordinario termometro. Nel 2014 la CGIL condusse una grande campagna di assemblee per l’ascolto dei lavoratori, durante la quale emerse il profondo senso d’isolamento dei lavoratori. L’isolamento corrispondeva all’abbandono sia da parte delle istituzioni sia della politica. Per ricucire determinati strappi, il Presidente Joe Biden è andato nelle fabbriche ad ascoltare e a dare l’idea che siano una necessità politiche in grado di stimolare la crescita e qualità del lavoro”.
Nello scenario politico, economico e sociale della deindustrializzazione come cambia il lessico della sinistra?
“Si è creduto di aver superato il fordismo, ma è tutt’altro che scomparso. I rider dipendono da una struttura a cottimo anche precedente al fordismo. Non sono scomparsi i braccianti agricoli sfruttati come nell’Ottocento. Non si possono cantare lodi all’innovazione, se non si creano strumenti di equilibrio del potere esercitato dal datore del lavoro oggi spesso invisibile come l’algoritmo. Nel pensare a nuova stagione, bisogna riconsiderare anche l’idea che affidare tutto al privato funzioni meglio rispetto al pubblico. Le politiche pubbliche non sono una spesa pubblica da tagliare sistematicamente”.
Ormai è dilagante la realtà del lavoro povero: i redditi da lavoro sono sempre più inadeguati per larghe fasce di popolazione e si sommano alle carenze del welfare
“La definizione di lavoro povero ce l’hanno fatta scoprire gli americani. Gli Stati Uniti sono stati il primo luogo in cui si è cominciato a riconoscere la working poverty. In Italia si credeva che l’essere occupato ti portava fuori dalla povertà. Si è fatta molta fatica a riconoscere che è possibile essere lavoratori ed essere poveri. C’è ancora chi non lo riconosce, nonostante le condizioni e i numeri stiano lì a dimostrarlo”.
Che cosa comporta il deficit di analisi di questa realtà?
“Il fenomeno non è stato letto dalle formazioni di sinistra e da chi governava: penso all’ex Premier Matteo Renzi e alle scelte che furono fatte in quell’epoca. Il costo del lavoro è diventato l’elemento competitivo preponderante. Si è immaginato d’imporre l’idea madre del “berlusconismo” che chiunque possa essere artefice della propria fortuna. L’organizzazione sociale, del lavoro e progetti di sviluppo erano considerati ormai vecchi orpelli. La povertà diventava una colpa. Nelle politiche dei governi nessuno ha correlato la crescente povertà dei lavoratori, che non era colpa dei singoli, con le forme di precarietà introdotte. Le forme di precarizzazione dei rapporti di lavoro avevano risvolti esistenziali e materiali”.
Lula ha vinto con i programmi sociali che hanno aiutato a far emergere dalla povertà milioni di brasiliani. In che modo queste strategie non devono limitarsi a creare un sistema di assistenza?
“Non regge un sostegno a vita per ogni persona in difficoltà. Con le carte sociali si possono fare alcune cose, ma servono interventi a tutto tondo. A chi è povero non bisogna spiegare che vita deve fare. Imporre modelli è un sistema per non vedere che se ci sono consistenti aree di povertà educativa, economica e di lavoro non è colpa del singolo”.
Riprendendo un’espressione di Lula, perché “quelli che hanno fame non hanno sindacato né partito”?
“I poveri non esistono soltanto nelle statistiche. Fatichiamo a dare loro la stessa dignità di cittadinanza, mentre ti devi confrontare, dare rappresentanza e la possibilità di partecipare all’individuazione delle vie d’uscita. Il primo atto di Lula è stato di vederli e riconoscerli come un potenziale attore economico e politico. La prima cosa che ti dicono i lavoratori poveri del nostro Paese è che sono invisibili. Non siamo in grado d’interagire con loro”.
Manca il contatto con la realtà?
“Permane l’illusione che la comunicazione e i social media sopperiscano all’interazione diretta. Non esistono forme sostitutive all’esserci fisicamente: ti guardo, ascolto e provo a rappresentarti. Non ti vedo soprattutto come altro da noi. Compito del sindacato e di una grande forza progressista di sinistra è di vedere tutto ciò che c’è e non lasciare nessuno in un limbo estraneo per la sua provenienza, condizione economica. Per esempio non abbiamo ancora il coraggio di riconoscere pienamente e organizzare la realtà dei lavoratori migranti”.
Il sindacato ebbe anche una funzione di emancipazione sociale nella storia di Lula. La presa di consapevolezza dei diritti, della capacità di mobilitazione e della conquista sociale sono ancora possibili attraverso del sindacato?
“Le organizzazioni sindacali devono essere attente a tutte le marginalità che negano quel processo di emancipazione. Il lavoro è un luogo di dimensione collettiva, per quanto questa venga messo in discussione, che nasce dalla presa di coscienza delle diseguaglianze. Questo è l’orizzonte della militanza integrale nel sindacato per affrontare le diseguaglianze economiche assolutamente esplosive”.
Qual è oggi la principale funzione democratica del sindacato?
“I regimi costituiscono un grande nemico dei lavoratori, dei loro diritti e della loro libertà. La democrazia corrisponde alla natura del movimento sindacale e al suo modo di rappresentarsi, e rappresentare. Attualmente si fatica di più a leggere questo tratto, che era chiaro nel Novecento e nella fase di costruzione del movimento dei lavoratori. È sempre più difficile che si connetta il tema del lavoro sia alle forme di rappresentanza politica sia a quelle della democrazia. Sembra sia smarrita l’idea che esista un’identità collettiva e non soltanto tante individualità. Quando viene messa alla prova, quella identità collettiva emerge sempre. Ha bisogno di essere organizzata e di manifestarsi in forme diverse. E forse più della politica il sindacato è rimasto un’organizzazione”.
La dialettica politica tra il sindacato e il socialdemocratico Partito dei lavoratori, fondato da Lula, ha caratterizzato l’evoluzione della sua parabola. Oggi quale può e deve essere questo dialogo?
“La questione travaglia sempre tutte le organizzazioni sindacali, a cominciare da quelle laburiste che sono in realtà all’origine dei partiti della sinistra. Nel dibattito sindacale si continua a parlare moltissimo del profilo dell’autonomia. Non necessariamente le lotte dei lavoratori hanno una risposta politica. La costruzione di risultati passa anche per gli strumenti della contrattazione, dello sciopero e così via, prima di arrivare alla norma di legge. Nel sindacato c’è bisogno di poter scegliere, organizzarsi e avere un’idea diversa delle alleanze che si possono determinare”.
Quando diventa essenziale l’interlocuzione con il mondo della politica?
“Oltre alla difesa della democrazia, quando il sindacato esce dalla dimensione del lavoro organizzato e si occupa della giustizia sociale, incrociando i temi della casa, della povertà e dell’istruzione. Ogni realtà nazionale ha le proprie peculiarità. In Brasile per questo dialogo ha contato molto che ci fosse Lula. Dal sindacato era vissuto come uno di loro. Uno che proveniva dal carcere per la lotta contro la dittatura e aveva in mente la condizione dei lavoratori e dei poveri. L’autonomia che c’era dal punto di vista delle iniziative, delle lotte e delle scelte che si facevano manteneva uno sguardo e una sintonia con la politica e il governo”.
A lei è andata diversamente da Segretaria generale della CGIL durante il governo Renzi
“Quella è stata una stagione complicata con la vera frattura del rapporto tra la CGIL e il principale partito della sinistra. Avere cancellato il lavoro dal centro della politica è stato distruttivo. Le norme che hanno agevolato questo processo hanno ampliato la crisi della rappresentanza. Dalla Gran Bretagna all’Italia le rotture sono state più violente quando governavano compagini politiche che comprendevano la sinistra. Non erano soltanto delle scelte che mettevano in difficoltà, ma si sentiva un tradimento della rappresentanza”.
La longevità politica di Lula è assicurata anche dalla sua arte politica del compromesso. Andrebbe rivalutato a sinistra?
“In questo credo conti avere una storia da sindacalisti. La costruzione di migliori condizioni di lavoro è figlia delle trattative che si concludono con dei compromessi. Il compromesso deve essere comprensibile a coloro che rappresenti. Le parole compromesso, mediazione, riformismo ormai sembrano profondamente corrotte nel linguaggio politico. Il compromesso non determina una compromissione, se non è un tradimento. Si dovrebbe recuperarne il senso originario. Le mediazioni di Lula hanno permesso a milioni di persone di uscire dalla fame”.
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