Mario, Federica e Andrea hanno tutti 16 anni, tutti e tre giocano a basket
Tre storie, tre sogni
Mario ha talento, sogna di diventare un giocatore professionista e fa parte della Nazionale U16. Per poter continuare a sognare ha deciso di andare a vivere in un’altra città, partecipare a un programma di qualità, per migliorare sé stesso giorno dopo giorno.
Federica ha iniziato con il mini-basket, a sette anni: tanti dei suoi compagni e compagne lo praticavano. Anche i suoi genitori hanno giocato, per un po’, e ora la seguono a ogni partita, in casa e in trasferta. Federica però sa di non essere tra le più brave, teme di deludere le aspettative dei suoi genitori e non è solo una questione di punti da segnare. Ci sono giorni in cui avrebbe voglia di fare qualcos’altro, anziché giocare a basket, ma non si sente libera di poterlo fare. Ha la sensazione di essere dentro dinamiche complicate da smontare, bloccata in un sistema troppo organizzato, che riguarda troppe persone.
Andrea ha scoperto il basket guardando le partite di NBA (ndr: lega di pallacanestro professionistica del Nord America) negli ultimi due anni. Prima del basket aveva provato a fare un bel po’ di sport come il mini-volley, sport che aveva praticato suo padre; il nuoto perché “è uno sport completo”…
Quando a quattordici anni gli è venuta voglia di giocare a basket, non è stato facile: ha provato a chiedere alle società della sua città, ma riceveva da tutte le stesse risposte: non sei alto, hai capacità atletiche normali, non hai mai giocato prima per cui “è troppo tardi, non sappiamo in che gruppo potremmo inserirti”.
I giovani e lo sport
Tre storie diverse, queste, che ci dicono chiaramente una cosa: il rapporto tra un giovane e lo sport è sempre diverso per ognuno, l’espressione tanto diffusa “i giovani e lo sport” è in realtà un’espressione di plastica. In tutte e tre le storie si nasconde un sogno, ma anche questo si trasforma molto da una storia all’altra.
Se Mario sogna una maglia da professionista e Federica vorrebbe solo non pensare alla prossima partita ‒ che invece è scritta a penna nelle agende di tutta la famiglia ‒, Andrea sogna di poterla giocare, una volta, una partita vera, con una squadra vera, per scoprire finalmente l’effetto che fa.

Ma qual è l’effetto che fa?
Io mi occupo di sport da tanti anni, sono il direttore di un’Academy in cui i ragazzi di talento desiderano entrare. Vivo lo sport a livello agonistico, proprio dove Mario sogna di arrivare: qui il primo obiettivo per noi è creare un metodo che permetta ai ragazzi e alle ragazze, ogni giorno, di sentire “l’effetto che fa” lo sport: emozionarsi per una piccola conquista anziché, nella routine, finire fuori strada confondendo un percorso in atto con punto di arrivo, già raggiunto, scontato, è la sfida più importante e anche più difficile.
Certe volte mi capita di guardare il campo alla ricerca dell’emozione, parte indispensabile del percorso di formazione, ma non la vedo.
I giovani non hanno passione? Sarebbe facile etichettare frettolosamente la questione e passare oltre, ma questa affermazione è sbagliata.
Allora i giovani hanno le loro emozioni, che non capiamo? Doppiamente sbagliato.
Mario, Federica e Andrea ‒ se esistesse un sistema che permettesse anche a lui di indossare una maglia ‒ hanno ognuno un differente rapporto con il campo, con il pallone che arriva tra le loro mani. Il compito è cercare di capire quale sia, per ognuno/a, questo rapporto. Provare e imparare a conoscerli per poterli aiutare a sentire la propria emozione: a darle una forma e un nome tutto loro.
Non è solo sport
L’emozione: qualcosa di intimo, soggettivo, che sul campo può trasformarsi in bellezza e spazzare via tutte le maschere che si indossano per schermarsi dal condizionamento altrui, da cosa pensano tutti gli altri: l’allenatore, i compagni, la propria famiglia, i genitori degli altri.
Questo il compito principale di chi condivide il campo con i giovani. Le competenze tecniche sono facili, scontate da conoscere. Ma è un’altra cosa capire come renderlo strumento, come far sì che ogni ragazzo e ragazza impari a usarlo in autonomia, per risolvere un problema in campo – anche semplicemente per poter essere pronti a ricevere un passaggio, che poi non è poco: è stare in relazione.
Forse sembrerà che io non stia parlando dei giovani. Ma la verità è che per parlare del rapporto dei giovani con lo sport bisogna analizzare i dati, conoscere il quotidiano, le difficoltà e i condizionamenti che pure hanno un ruolo fondamentale in questa relazione. Bisogna, insomma, partire dalla realtà e dai vissuti di ciascuno.
E ancora, significa non pensare che le storie belle – di chi è diventato campione, che ci viene raccontato a suon di “ce l’ha fatta, ma sai quanti sacrifici?” – possano davvero mostrarci come i giovani si rapportano allo sport.
Potrei raccontare di Mario, dei suoi successi, delle sue difficoltà a destreggiare tutte le skill che gli serviranno, della sua emozione dopo un canestro vincente, delle sue altalene tra giorni con mille dubbi e giorni in cui pensa di essere arrivato in cima. Ma questa è solo la storia di Mario.
La storia dei giovani e lo sport è un’altra cosa e a volte, come per Andrea, è la storia di un rapporto impossibile.