Estratto da Generazione Cairo.
Le
storie di chi sfida il regime


Articolo tratto dal N. 26 di

Chi lotta non è mai sola

Proponiamo qui di seguito un estratto dal volume Generazione Cairo, Fondazione Feltrinelli 2025, in libreria e negli store online il 15 aprile.  

Siamo Tutti Khaled Said

Le donne giunsero alla vigilia della rivoluzione del 2011 da protagoniste dei movimenti sociali che avevano segnato i decenni successivi alla fine della guerra fredda e l’introduzione del cosiddetto “nuovo ordine mondiale”.
Già nei primi anni Duemila, le pratiche del femminismo sviluppate nel corso del ventesimo secolo permeavano tutti i movimenti per i diritti umani, studenteschi e dei lavoratori, incluso il Movimento Sei Aprile (nato dalla solidarietà degli studenti universitari con i lavoratori delle fabbriche il cui sciopero generale, annunciato per il 6 Aprile 2008, era stato represso dal governo), e Siamo Tutti Khaled Said (una campagna nata nel 2010 in protesta per la morte, sotto custodia della polizia, di un giovane della classe media di Alessandria, Khaled Said), e che furono il cuore della rivolta del 2011.

Riprendersi le piazze

Nel primo decennio del Ventunesimo secolo, tra le giovani generazioni, si profilarono figure che usarono le opportunità offerte dalle nuove tecnologie in maniera strategica, specialmente i blog e i social media, per amplificare le lotte in cui sono impegnate, specialmente quelle per i diritti dei lavoratori e contro la violenza di genere.
Non stupisce dunque che l’appello a protestare il 25 gennaio del 2011 sia stato lanciato da una giovane donna attraverso un video YouTube, e che i suoi contenuti ribaltassero le nozioni tradizionali di genere e mascolinità: “Non chiedetemi di stare a casa perché è pericoloso, venite con me a Piazza Tahrir” disse Asma’ Mahfuz in quel video, sfidando la retorica che aveva caratterizzato la narrazione del regime Mubarak sulle manifestazioni negli anni precedenti.

Nel 2011 le donne si ripresero le piazze e le strade, partecipando alle manifestazioni e documentando la rivoluzione, anche con graffiti in cui rivendicavano un ruolo centrale nella rivolta: “Quando sarai in pericolo, io ti proteggerò”, l’epigrafe di un graffito del 2011 che raffigurava una donna nell’atto di proteggere un uomo durante un attacco della polizia.

La rivoluzione del 2011

Nel decennio che ha seguito la rivoluzione del 2011, l’euforia collettiva per la caduta di Mubarak e per l’esperienza dell’occupazione ha lasciato spazio allo sconforto, al lutto, all’estrema fatica. Un tema però ricorre e continua ad essere centrale tra i tantissimi cambiamenti di questi ultimi anni: la riformulazione da parte delle donne del discorso sulla violenza di genere ed il fiorire di un nuovo movimento femminista.

Infatti, se è vero che le giovani donne che hanno animato la Rivoluzione di gennaio 2011 rivendicavano una sorta di neutralità di genere, affermando di essere scese in piazza come cittadine, non come donne, sfidando i pregiudizi sulla vulnerabilità delle donne nello spazio pubblico, nonostante questa convinzione diffusa non ci vollero molte settimane per sperimentare che la violenza di genere e sessuale continuava ad essere una delle armi più taglienti adoperate dai militari per reprimere il fervore rivoluzionario.

L’8 marzo del 2011, la prima volta in anni che le donne organizzarono una marcia per celebrare la giornata internazionale della donna, le manifestanti furono attaccate da baltagheia. Il giorno successivo, alcune delle donne arrestate furono soggette ai “test della verginità”, una pratica di tortura che è di routine nelle stazioni di polizia e nelle carceri egiziane, ma che stavolta, grazie allo spirito rivoluzionario, fu denunciata da una delle giovani donne torturate, Samira Ibrahim, e i medici dell’esercito furono portati a processo.

Nonostante il processo si sia infine concluso con un’assoluzione, la denuncia rivelò un cambiamento nella mentalità delle giovani attiviste, che a seguito dei fatti di marzo e ancora di più delle violenze di dicembre 2011, quando durante una manifestazione una giovane che indossava l’abaya (un ampio mantello) fu trascinata nelle strade dalla polizia fino ad essere spogliata, e il suo reggiseno blu divenne un’icona di resistenza contro l’uso politico della violenza di genere.

Un femminismo rivoluzionario

La crescente violenza, intesa a demoralizzare il movimento rivoluzionario, non intimidì le donne che, recuperando pratiche di attivismo trasmesse attraverso un secolo di memoria collettiva e transgenerazionale, si organizzarono con maggiore determinazione per mantenere una presenza del nuovo movimento femminista a più livelli.

(…) Questi spazi hanno formato non solo una nuova generazione di femministe egiziane ma anche le loro amiche internazionali, quelle che, come me, hanno goduto del privilegio di quella che io chiamo “l’intimità delle straniere” con le attiviste egiziane, nel difficilissimo decennio della rivoluzione e della controrivoluzione un’esperienza trasformativa, in cui all’urgenza di testimoniare cosa accadeva, si univa la sedimentazione di pratiche di resistenza alla violenza.

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