Disintermediazione
Il declino della funzione di intermediazione dei partiti viene associato alla «crisi della democrazia» come regressione verso quella che Guillermo O’Donnell ha definito trent’anni fa «democrazia delegata» o autocrazia elettiva, con cambiamenti che riguardano sia i contenuti della politica (politica dell’identità) sia gli stili (retorica populista).
Si tratta di fenomeni che riflettono una società meno integrata, dove il declino della funzione moderatrice dell’intermediazione partitica ci indirizza verso una ineguale distribuzione del potere di intermediazione sociale. Per essere schematici, le parti «forti» della società godono di un maggiore potere di influenza sulla politica rispetto alle parti «deboli».
Jan-Werner Müller, analizzando la responsabilità dei corpi intermedi politici in relazione alla polarizzazione, punta il dito sul rapporto tra il «tutto» e le «parti» e sostiene che lo scenario ideale di una democrazia non è composto da «pochi» e «molti», ma da «pochi», «molti» e «il tutto». Come spiega Müller, gli indizi si manifestano sotto forma di una doppia secessione dal «tutto»: quella dei pochi dall’obbligo di contribuire all’interesse della società nel suo complesso (la lotta contro le tasse) e quella dei molti (la metà in vari Paesi) dall’esercizio del potere politico primario (astensionismo elettorale). I pochi e i molti si separano dal tutto, mentre la politica come beneficio di «tutti» tende a decadere.
Questa doppia secessione si riflette nell’intermediazione politica (partiti e media). Da un lato, i «pochi» hanno un potere sproporzionato nelle elezioni e sugli eletti, fino a dettare i testi delle proposte di legge; dall’altro, la disaffezione elettorale dei «molti» si misura con la cartellizzazione dei partiti e il graduale declino dell’indipendenza dei media (i media di opinione sono aziende con interessi diretti, implicati nelle scelte politiche). Sebbene importante, questa lettura che verte sull’intermediazione politica è incompleta.
Democrazia e “corpi intermedi”
Nella tradizione politica moderna, ci sono due linee di pensiero che si riferiscono al ruolo dei corpi intermedi. La prima si trova nello Spirito delle leggi, dove Montesquieu caratterizza i corpi intermedi come condizioni essenziali per un governo moderato, in quanto antidoti alla tendenza del potere politico alla concentrazione.
La seconda linea di pensiero fa capo ad Alexis de Tocqueville e propone tre tipi di corpi intermedi: la stampa, le associazioni civili, i partiti politici. La stampa svolge tre funzioni – dispersione del potere; sorveglianza del potere; autoconsapevolezza di avere potere – che presuppongono una società articolata in associazioni civili e politiche. Le prime riuniscono e dividono gli individui in base ai loro interessi specifici e tendono a frammentare la società secondo “questioni di dettaglio”. I partiti invece uniscono e dividono i cittadini in base alle loro interpretazioni di questioni generali o di «uguale importanza per tutte le parti del Paese»: essi interrompono la frammentazione sociale. Sono produttori piuttosto che semplici agenti del pluralismo, come ha scritto Giovanni Sartori.
Le aggregazioni sociali sono funzionali alla democrazia nel senso di esserne dei correttivi. È l’individualismo che, insieme all’uguaglianza, rende queste associazioni utili e necessarie, perché danno potere ai cittadini e li preparano a condividere il potere politico, non semplicemente come elettori. In tale scenario, il problema critico per la democrazia si pone quando i cittadini rimangono isolati e perdono il potere che deriva dall’associazione e dalla condivisione.
La solitudine del cittadino
La solitudine o l’isolamento sociale del cittadino democratico è il problema di fondo dell’erosione della partecipazione al voto e del valore percepito dell’uguaglianza politica. Le associazioni di categoria, le organizzazioni sindacali, le parrocchie e le comunità religiose, le numerose associazioni professionali sono fondamentali per i partiti. Tra i due tipi di corpi intermedi si genera una corrente interattiva. Se il panorama politico fosse composto da cittadini dissociati, i partiti sarebbero solo macchine elettorali al servizio dei candidati.
Come ha dimostrato, tra gli altri, il premio Nobel per l’Economia Angus Deaton, una parte consistente della popolazione ha un sostegno associativo scarso o nullo e quindi non trova ascolto e risposta nei partiti e nei governi, finendo per non attribuire valore al proprio voto. Già Hegel poneva ai democratici del suo tempo una domanda che vale anche per noi: «Che potere ha un elettore che sa che il suo voto è un milionesimo del tutto?».
Partecipazione politica e disuguaglianze
In una democrazia rappresentativa, il voto non è un indice sufficiente di potere politico. Certo, i cittadini socio-economicamente deboli hanno le loro forme associative, ma spesso sono fragili, di breve durata o incapaci di attirare l’interesse di candidati e rappresentanti politici. In sintesi, i cittadini socialmente più deboli non hanno una vera e propria rete di riferimento che li renda capaci di esercitare l’advocacy (lobbying). La mancanza di un percorso diretto nell’esercizio del potere elettorale ci fa capire perché è fondamentale prestare attenzione non solo ai corpi intermedi politici, ma anche a quelli sociali. Sulla loro interazione, infatti, riposano le democrazie elettorali.
Il rischio, altrimenti, è trovarsi di fronte a casi esemplari di disuguaglianza nell’opportunità di influenza politica. L’effetto può essere destabilizzante. Non perché gli autoesclusi dal gioco politico si ribellino, ma perché i politicamente attivi si sentono liberi dal confronto con i socialmente più deboli, che potrebbero invece svolgere una funzione di bilanciamento degli interessi e di contenimento del potere. La disuguaglianza di forza rappresentativa dei corpi sociali intermedi va vista come una fonte di vulnerabilità delle democrazie.
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