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La Palestina oltre i paradigmi di destra e sinistra.


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La Palestina è un oggetto (politico) indistinto. È un territorio che, in fondo, si pensa come il nostro, con regole, dinamiche, desideri simili a quelli che seguiamo in un altrettanto indistinto paese europeo. C’è un “ceto” politico, movimenti, partiti o organizzazioni simili alla nostra idea di una formazione politica. E poi, però, cominciano le prese di distanza, da parte nostra, quando accanto agli elementi che compongono la nostra idea di esercizio della politica ne compaiono altri. Armi e violenza armata, anzitutto. È in questa compresenza di strutture politiche e di gruppi armati, in gran parte legati alle fazioni tradizionali ma negli ultimi anni anche indipendenti e localizzati, che lo sguardo occidentale si ritrae.

È in questo momento, quando compaiono le armi, che si avverte – dirompente – la distanza. Si avverte, soprattutto, che quell’oggetto politico (la Palestina) non lo si riesce ad afferrare, non lo si comprende. La ragione è cruciale: mancano, in questo tentativo di comprensione, le coordinate non solo politiche, ma persino geografiche e istituzionali.

Hamas è, insomma, tutt’uno con il suo gruppo armato, le brigate Ezzedine al Qassam? Oppure l’ala politica ha un primato su quella militare? E come è evoluto il loro rapporto? Cos’è successo per arrivare all’attacco terroristico del 7 ottobre? Domande come queste, che richiedono una risposta complessa, rimangono spesso inevase perché eludono la questione di fondo: perché ci sono ali armate legate a tutte le fazioni politiche tradizionali palestinesi. Non solo la componente islamista, Hamas e Jihad Islamico, ha una consolidata componente armata. Così è per Fatah, così è per i comunisti del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

È come se si saltasse a piè pari una parola che nel corso dei decenni è stata svuotata del suo significato, tutto – invece – presente nella vita quotidiana palestinese. L’occupazione. Senza l’occupazione del Territorio Palestinese definito dalla Linea Verde (Cisgiordania, Gerusalemme est, Gaza) non ci sarebbero ali armate collegate direttamente alla politica. Alle formazioni politiche.

Palestina: un mondo frammentato

In questo modo, si è già definito l’orizzonte geografico di riferimento. La Palestina di cui parliamo è il territorio amministrato (formalmente) dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Coinciderebbe con lo Stato di Palestina, se non vi fosse una differenza di fondo: l’ANP ha come riferimento il Territorio Palestinese Occupato, e cioè Cisgiordania, Gerusalemme est e Striscia di Gaza. Lo Stato di Palestina va oltre quel territorio, almeno nominalmente, perché è diretta espressione dell’OLP, cioè dell’unico rappresentante legittimo del popolo palestinese, che va oltre il Territorio Palestinese Occupato e comprende il grande mondo del rifugio, la diaspora, i milioni di rifugiati palestinesi che dal 1948 sono fuori dai confini di Israele/Palestina.

Il contenimento dell’orizzonte geografico, limitato al Territorio Palestinese Occupato, esclude in sostanza tutto il resto da una riflessione sull’esercizio della politica palestinese. Esclude il mondo del rifugio fuori dai confini di Israele/Palestina. Esclude, allo stesso tempo, ben due milioni di palestinesi, e cioè quel quinto della popolazione di Israele composta – appunto – da cittadini palestinesi che sono rimasti nelle città come Haifa o Nazareth, San Giovanni d’Acri o Jaffa, Umm al Fahm o Lydda. L’esercizio della politica, in questo caso, è in parte all’interno delle istituzioni israeliane, in sostanza il parlamento, ma con sempre più difficoltà nel rapporto con gli israeliani ebrei.

L’Autorità senza autorità

Poniamo, insomma, che il nostro universo di riferimento sia ‘solo’ il Territorio palestinese occupato, e cioè Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza. L’esercizio della politica è solo uno degli esempi più chiari ed evidenti dell’impossibilità di avere diritti civili e politici in un territorio occupato da Israele (dal 1967), in cui vige la legislazione militare, il totale controllo militare, e – con l’attuale governo di coalizione guidato da Benjamin Netanyahu – l’annessione in corso della Cisgiordania attraverso precisi atti formali e attraverso la crescita rapida ed esponenziale delle colonie, cioè di vere e proprie città e cittadine israeliane nel cuore del territorio palestinese.

Dall’inizio della storia dell’ANP, a metà degli anni Novanta, la comunità internazionale ha provato a blindare l’Autorità guidata prima da Yasser Arafat e poi da Mahmoud Abbas in una opaca cornice istituzionale. Un’entità istituzionale che, in fondo, si sapeva già che non sarebbe mai stata trasformata in uno Stato perché priva di qualsiasi potere sul suo territorio. Persino quando, nel 2006, la comunità internazionale nella sua interezza ha sostenuto le prime vere elezioni democratiche per il rinnovo del parlamento dell’ANP, l’obiettivo non è mai stato quello di uno Stato palestinese in fieri, frutto di un processo di transizione politica molto interessante. La vittoria di Hamas alle elezioni e l’immediato embargo internazionale e israeliano al governo a guida islamista hanno fatto immediatamente comprendere che nulla sarebbe cambiato, per il processo di Oslo. L’ANP, dunque la politica istituzionale palestinese, sarebbe stata sequestrata ancora una volta dalla presenza di attori ‘esterni’, da Israele in quanto potenza occupante e onnipresente sino alla comunità internazionale.

La Palestina che c’è

La Palestina come formale oggetto politico, insomma, non esiste, nella misura in cui non c’è un territorio su cui si possono esercitare i propri diritti politici senza che la potenza occupante decida la vita, la libertà (e anche la morte) degli occupati.

Esiste, però, una politica palestinese che prova a esercitarsi non solo in numerosi luoghi, ma anche con modalità differenti.

C’è certo la Cisgiordania dell’ANP e delle sue forze di sicurezza. C’era la Gaza governata da Hamas, sino al 7 ottobre 2023. Ma ci sono, da decenni, anche le ong palestinesi che si occupano dei dossier fondamentali usando solo gli strumenti della legalità: diritti umani, diritti civili, giustizia internazionale, prigionieri detenuti nelle carceri israeliane. Ci sono le ong e i comitati locali palestinesi che – usando strumenti pacifici – devono avere a che fare con l’occupazione quotidiana: anzitutto, le limitazioni dei movimenti all’interno della Cisgiordania, le demolizioni di case e proprietà da parte delle autorità israeliane e dei coloni, gli espropri, il Muro di separazione. Ci sono i prigionieri palestinesi, i membri delle fazioni politiche, che continuano fin quando possibile a esercitare la politica in cella. E poi, poi sì, ci sono anche i gruppi armati, spesso non più legati alle fazioni politiche classiche, che vivono e proliferano proprio nel tempo (oltre mezzo secolo) e nello spazio (Cisgiordania e Gaza) dell’occupazione israeliana.

È un quadro surreale, se per comprenderlo si usano gli strumenti analitici che utilizziamo per la politica che si esercita in un paese – europeo – indipendente, democratico, senza truppe occupanti. È un quadro più comprensibile e ancor più dolente se, per analizzarlo e poi provare a immaginare soluzioni, si superano i nostri paradigmi e si prova a entrare in un mondo altro.

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