Oggi, 8 marzo significa, in gran parte, fiera dei contenuti stereotipati e degli slogan vuoti sulla questione femminile, che, del resto, in questi ultimi anni è passata più attraverso il genere grammaticale che altro: lotte simboliche come i femminili di mestiere o completamente inutili come il “femminile sovraesteso” sono state al centro di innumerevoli iniziative, libri, articoli, manifestazioni, monopolizzando in molte occasioni il dibattito pubblico per giorni.
Rivoluzione linguistica e femminismo pop
L’idea è che, poiché il Patriarcato, questo spirito di sempre più vaga definizione, informa di sé tutte le cose, le lotte simboliche, come quella ai generi grammaticali dell’italiano, siano molto più di questo: un modo per scardinare la mentalità oppressiva attraverso la rivoluzione di una delle sue armi più temibili, la lingua. Non dite “ciao a tutti” e salverete le donne.
Più che lotte concrete, quindi, roba che non ha nessuna ripercussione sulla vita reale delle persone. Non sarà forse un caso, infatti, che il femminismo pop abbia completamente obliato il problema di classe, portando a un buffo livellamento della questione femminile come fosse tutta unica: Chiara Ferragni che a Sanremo ci illustra i problemi delle donne è sullo stesso piano di una trentenne disoccupata. A monte: Chiara Ferragni è la persona giusta per parlarci dei problemi delle donne. Senz’altro lei conosce le difficoltà sul lavoro legate alla maternità, le fatiche del lavoro di cura che si aggiunge al carico quotidiano, il giudizio sulla condotta sessuale, le restrizioni alla libertà personale dovute alla famiglia o alla religione…
La finzione dell’oppressione condivisa
Ben lungi dall’andare in cerca della concordia sociale, inoltre, il femminismo inutile, come lo definisce Annina Vallarino, si basa sull’identificazione di un nemico esterno: il maschio. Le battaglie (continuo a chiamarle così per pura convenzione) non riguardano quindi proposte per la costruzione di una società più giusta, ma condanne; le quali si basano sull’assunto che il maschio, in quanto tale, sia privilegiato – ammissibile solo a condizione di operare il medesimo livellamento: Elon Musk sullo stesso piano dell’operaio, o perché no, del padre separato che vive in macchina.
In questa maniera, il femminismo social evita di mettere realmente in discussione (figuriamoci sfidare) lo status quo (che ovviamente non è determinato “dai maschi”). Anzi: questo è un femminismo inserito nel sistema, avvantaggiato dal sistema e che si nutre del sistema stesso. Un’influencer con centomila follower che esibisce magliette anti-patriarchy avrà verosimilmente difficoltà quotidiane un po’ diverse dal padre separato di cui sopra. Ecco perché si evita accuratamente di parlare della variabile economica: l’influencer deve far credere alla lavoratrice, alla casalinga, alla studentessa di essere oppressa e discriminata quanto lei. Su quella finta oppressione scriverà un libro, in seguito al quale nascerà un podcast, magari finanziato da quell’azienda solidale che fa borse a tema Palestina – su cui l’influencer, per averle pubblicizzate, prenderà una percentuale.
Il femminismo dell’apparenza
Analisi troppo approfondite stonerebbero, in questo panorama, in cui la polarizzazione funziona invece decisamente di più. Inoltre, perché non sognare in grande? La “sorellanza” amplia il bacino di utenza, e questo non guasta se l’utente a cui ci si rivolge, più che un cittadino, è un potenziale acquirente. È chiaro che l’intenzione di muoversi per cambiare i ruoli di genere è finta, apparente, e riguarda comunque quegli aspetti instagrammabili, sfruttabili per un contenuto. Altrimenti ci aspetteremmo sostegno alle iniziative non femministe che mirano allo stesso obiettivo, come per esempio i centri antiviolenza maschili, a cui invece ci si oppone con grande vigore.
Tutto questo è anche controproducente nell’ottica dell’emancipazione delle donne stesse: si continua paradossalmente a dipingere la donna come incapace di prendere il proprio destino in mano, ma sempre ed inevitabilmente in balia degli eventi (e degli uomini). Tanto che, quasi come una sorta di animale in via d’estinzione, deve essere poi tutelata, protetta con incentivi appositi che, ricordiamolo, prescindono spesso e volentieri dall’estrazione sociale e dal reddito della donna; quindi, di fatto, creando un trattamento speciale sulla base del sesso, che è proprio una delle cose che il femminismo avrebbe dovuto voler sradicare.
Ma non va trascurata, del resto, la seria opposizione alla problematizzazione che in questi ambienti si porta avanti. Ciò che è donna, in quanto tale, è affidabile, buono, onesto; io sono donna, perciò potete fidarvi. Ciò che è uomo, invece, è in quanto tale manipolatore e violento; io sono un uomo che parla male della mascolinità, perciò comprate i miei libri. Così funziona il femminismo fatto per vendere: è un femminismo che va di moda, e se va di moda, non può essere rivoluzionario.