Il femminismo dei margini per cambiare la politica 


Articolo tratto dal N. 26 di

Chi lotta non è mai sola

Per testare lo stato di salute di una democrazia, è sufficiente dare un’occhiata a come vengono trattati i diritti delle donne e delle persone Lgbtq+. Le destre al governo in occidente ce lo hanno mostrato con chiarezza: si comincia con il limitare il diritto delle donne a decidere sul proprio corpo per poi attaccare i diritti umani e le conquiste egualitarie portate dai sistemi democratici.

È successo negli Stati Uniti, sta succedendo in molti paesi europei. È questa la consapevolezza da cui sono mossi i movimenti femministi che, partiti dalla rabbia per i femminicidi, in questi ultimi anni si sono fatti interpreti di istanze sociali e rivendicazioni politiche ed economiche che non riguardano soltanto le donne ma tutti i gruppi marginalizzati che aspirano a un mondo più giusto.

Buenos Aires: 3 giugno 2015

Dieci anni fa, il 3 giugno 2015, una folla di donne è scesa in piazza a Buenos Aires e in altre 120 città del paese per dire basta alla violenza maschile: è l’inizio della marea di Ni una menos, che subito si è riversata oltreoceano diventando un movimento internazionale, determinato a smascherare il legame fra l’oppressione patriarcale e lo sfruttamento neoliberista dei migranti, delle minoranze etniche e in generale di tutte le lavoratrici e i lavoratori sottopagati, non protetti, costretti ad accettare condizioni di lavoro infime e umilianti per permettere alla usurata macchina del sistema capitalista di continuare in qualche modo a funzionare.

Viene denunciata anche l’invisibilizzazione del lavoro domestico e della riproduzione sociale, perché sono le donne che si occupano gratuitamente della famiglia e della cura degli anziani a sopperire al fallimento delle politiche di welfare dello Stato.

Varsavia: 3 ottobre 2016

Altro luogo, altra scena: il 3 ottobre 2016, sotto una pioggia battente, in Polonia migliaia di persone occupano le piazze della capitale Varsavia e di decine di città in provincia per opporsi al divieto totale di aborto. Sono casalinghe, impiegate, cattoliche, donne di ogni età che alle spalle non hanno un passato di attivismo ma che vedono minacciato non soltanto il diritto all’autodeterminazione ma la democrazia stessa. Non a caso, pochi mesi dopo, le ritroveremo in prima fila nelle manifestazioni di protesta contro il tentativo del governo di limitare l’autonomia del potere giudiziario.

8 marzo 2017

E ancora: l’8 marzo 2017 in cinquanta paesi viene dichiarato lo sciopero generale contro la violenza di genere e ogni forma di discriminazione economica, politica e culturale, con l’obiettivo di portare alla luce e smantellare i meccanismi di potere su cui si fondano. La prospettiva della lotta è intersezionale e transfemminista: il razzismo, il sessismo, l’omofobia, la transfobia, la xenofobia e tutti i pregiudizi basati sull’intolleranza non agiscono infatti in modo indipendente e non c’è dubbio che la violenza sessuale, la disparità economica e sociale opprimano alcune persone più di altre.

Tutte le lotte sono interconnesse. Per dirla con le parole di Marta Dillon, una delle fondatrici di Ni una menos, «quando parliamo di aborto stiamo parlando di fame, quando parliamo di femminismo parliamo della relazione con il pianeta e il clima». In un mondo in cui si irrobustiscono i confini e si allunga la lista dei divieti (non ultima, in Italia, la circolare del ministro Valditara che vieta l’uso dello schwa nelle comunicazioni pubbliche), i movimenti femministi con le loro pratiche di inclusione, con le sperimentazioni linguistiche e il radicamento nei territori, sono oggi ancora una volta rivoluzionari.

In una società che sempre di più si vorrebbe asserragliata nel pensiero dicotomico che così bene nutre le fantasie di chi pensa che le differenze si devono appianare con le regole e i conflitti si evitano con la guerra, i movimenti delle donne offrono l’esempio di una spinta contraria, che si muove dai margini e si prende tempo per ragionare sulla complessità, per raccogliere le istanze trascurate (o manipolate) dal discorso pubblico e proporre idee e modi nuovi per stare al mondo.

Ripartire dal desiderio (e qui risuona la storia del femminismo degli anni ’70) per farne politica, allargare le reti, creare alleanze trasversali e imprevedibili, in una parola fare comunità: questo è oggi lo spirito creativo dei movimenti delle donne. Il risultato è, anche in questa spaventosa primavera di repressioni, guerre e genocidi, una gemmazione di nuove esperienze liberanti, senza steccati, nelle giovani generazioni e nei luoghi più imprevisti.

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