Da quando mi è stato chiesto di scrivere questo editoriale, ho pensato a come affrontare il tema che mi è stato assegnato: una riflessione sui cliché che fanno delle nuove generazioni un soggetto scritto da altri.
Giovani scritte da altri: la voce silenziata
Per farlo, devo dirvi un paio di cose che penso. La prima è che siamo scritti e scritte da altri tutta la vita. Lo racconta il mio collega Stefano Laffi quando, nel suo libro La congiura contro i giovani, afferma che ogni persona è misurata, valutata e inserita in categorie fin dalla nascita. La seconda è che una delle forme attraverso cui si esprime l’ingiustizia della nostra società sta nello spazio di parola riconosciuto a ognuna e a ognuno di noi, nella forza con cui alla nostra voce è consentito di partecipare alla costruzione del mondo che abitiamo.
Le persone giovani sono oggetto dei discorsi del mondo degli adulti, in una condizione di asimmetria dei poteri di parola. Il mondo degli adulti parla e scrive sulle giovani e sui giovani, una frase in cui l’elemento chiave è “su”, una preposizione quasi mai sostituita dalla preposizione “con”. E pensate quanto farebbe la differenza: il mondo degli adulti parla e scrive con le giovani e con i giovani. Una bella contraddizione anche per me: questo editoriale lo scrivo io, a partire dal mio supposto sapere sui mondi giovanili.
L’ingiustizia dell’esperienza adulta
In questa asimmetria, il mondo delle ragazze e dei ragazzi è rappresentato come un mondo per difetto. Oggi, sempre più spesso, facendo ricorso a categorie cliniche e a forme espressive in cui la diagnosi la fa da padrona: pensate al concetto di depressione sociale applicato alle giovani generazioni. Le ragazze e i ragazzi si trovano dentro rappresentazioni che costringono loro a diventare personaggi o a farsi massa indistinta. La società dello spettacolo, con le sue regole di iper-visibilizzazione del singolo soggetto, staccato dalla dimensione sociale in cui vive, non è un’invenzione dei social media, ma una parte costitutiva delle società di capitalismo avanzato. Quale che sia la scelta, gli adulti moralizzatori qualificheranno la visibilità come narcisismo e il farsi massa come omologazione.
La categorizzazione delle giovani generazioni per le loro mancanze è un vizio antico. Potremmo scrivere una storia di lunga durata dell’allarme e del panico sociali applicati alle giovani generazioni. Questo perché il passaggio liminale dell’adolescenza, il transito dall’infanzia all’età adulta, è ricco di incertezze e di inquietudini che mettono e hanno messo in discussione la falsa coscienza di una società adulta che si vorrebbe autorevole.
Risposte plurali: omologazione, protesta e resistenza
Uno dei libri a cui ritorno è Bambino bruciato di Stig Dagerman. Il protagonista, Bengt, prende parola in prima persona attraverso le lettere che scrive: a se stesso, al padre, a un’isola. Nella lettera di maggio da se stesso a se stesso, scrive della purezza e del rapporto tra genitori e figli. Vi riporto un passaggio che esprime quello che provo a dire.
«Arrivare a perdonare tutto a se stessi e praticamente niente ai propri figli è il grande vantaggio che “l’esperienza” concede agli uomini. Quello che i genitori chiamano esperienza non è altro che il tentativo, riuscito fino al limite del mero cinismo, di negare tutto quello che avevano sperimentato di più puro, più giusto e più vero in gioventù. […] Si accorgono soltanto dell’“inesperienza” dei loro figli, cioè di quella mancanza di esperienza che si chiama purezza e onestà, e questo li irrita».
A me sembra che l’esperienza che la società adulta riserva alle ragazze e ai ragazzi sia fatta di ingiustizia sociale, di diseguaglianze di opportunità, di futuri incerti e minacciosi, di lavori mal pagati che impediscono di costruire un futuro meno incerto e minaccioso. Non credo ci sia da meravigliarsi che, rispetto alla società in cui invitiamo loro a entrare, ci siano risposte che vanno dall’omologazione alla resistenza, dalla protesta alla defezione e alla diserzione. Risposte e transiti plurali, perché mi pare che le giovani generazioni esistano come soggetto collettivo solo nelle rappresentazioni mediatiche.
Una nota finale sul linguaggio. Parlando delle persone giovani mi sono industriato a evitare il maschile sovraesteso. Parlando degli adulti e delle istituzioni che questi producono e governano ho utilizzato intenzionalmente il maschile. È il mio modo per evidenziare come nel mondo degli adulti e delle istituzioni si parli di quella che Ursula Le Guin definisce «la lingua padre»: una lingua che parla dall’alto e unilaterale, che si arroga un rapporto privilegiato ed esclusivo con la realtà.