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La guerra di Trump contro la diversità

Non solo ideologia: cancellare le politiche DEI nasconde la volontà di dare alle aziende libertà di licenziamento 


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Il discorso di insediamento di Trump ha scatenato un dibattito globale per la varietà di temi controversi che tocca, tra cui le discriminazioni per razza e genere. Si sta intensificando la guerra ideologica contro la “cultura woke”, uno dei nomi dati dalle destre americane ai fenomeni culturali emersi dai movimenti emancipatori e sindacali degli ultimi decenni. L’annuncio di modifiche strutturali alle proprie politiche di inclusione da parte dei maggiori miliardari statunitensi – Mark Zuckerberg, Elon Musk, Jeff Bezos – illuminano l’impatto di questa guerra ideologica sul mondo del lavoro.

I colossi contro le politiche DEI

L’avversione delle corporation alle politiche DEI (Diversity, Equity and Inclusion) non è nuova. Nel 2024 alcune grosse aziende americane – tra cui Ford, Harley Davidson e Jack Daniels – avevano annunciato il dietrofront da queste e dal Corporate Equality Index, l’indice di diversità e inclusione stilato dall’ONG Human Rights Campaign.

Trump interpreta quindi un sentimento diffuso dei conservatori americani, che vedono nell’inclusione attiva una “discriminazione al contrario”. A questa viene contrapposto un supposto “ritorno alla meritocrazia” necessario to make America great again.

Con la crisi del Covid, quella dell’automotive in USA e UE, la guerra commerciale con la Cina e l’escalation militare, il ritiro dalle politiche DEI non ha ragioni solo ideologiche (cioè una tattica di “distrazione” dai “veri problemi”) ma anche materiali: abbattimento dei costi aziendali e maggiore libertà di licenziamento e repressione dei lavoratori. La reindustrializzazione annunciata da Trump deve avere come complemento (e piano B) una maggiore libertà di azione delle aziende nella gestione della forza-lavoro.

Nasce l’affirmative action

Facciamo un passo indietro. Le politiche DEI nascono dalla guerra civile americana come misura di inclusione per le vedove di guerra e i sopravvissuti al fronte. Un punto di svolta arriva nel 1936 con Roosevelt, che dispone per il governo la preferenza di acquisto di merci e materiali prodotti da persone con gravi disabilità. Ma è soprattutto a partire dagli anni ‘60 che assumono il carattere che sta facendo discutere in questi giorni, prima con Kennedy (1961), poi con Lyndon Johnson (1965): nasce l’affirmative action, la deliberata inclusione lavorativainizialmente nelle aziende con contratti governativirivolta a minoranze e soggetti marginalizzati con riferimento esplicito alle persone razzializzate (“race, creed, color, or national origin”). È uno degli effetti delle lotte black che esplodono proprio negli anni ‘60.

Nel 1978 la diversity diventa un constitutional factor. L’anno prima, il Combahee River Collective coniava il termine “identity politics” con un significato molto diverso da quello che ha il termine oggi: si riferiva alla posizione delle donne nere nelle organizzazioni rivoluzionarie e comuniste in particolare afroamericane; siamo negli stessi anni ‘70 del femminismo dellaseconda ondata” e dei movimenti di liberazione omosessuale seguiti ai fatti di Stonewall (1969). È da questo retroterra che nascono poi, a fine anni 80, fenomeni come il politically correct (o PC) e teorie come quella dell’intersezionalità, proprio mentre l’amministrazione Reagan cerca di disfarsi delle politiche DEI, paradossalmente rallentato dai consulenti aziendali del neoliberalismo in ascesa che in quelle politiche vedevano possibili incentivi alla produttività. Iniziano così gli studi sociologici sulla diversity al lavoro. 

Si rafforzano le pratiche di inclusione

Negli anni ‘80 infuriava la crisi pandemica dell’AIDS e con essa la discriminazione verso le persone Lgbtqia+ e razzializzate. La paura del contagio – non si conoscevano né le cause né la natura del virus HIV da cui si sviluppa la malattia – ebbe degli effetti sociali devastanti, tra i quali una vertiginosa mortalità nelle comunità marginalizzate, un altissimo tasso di discriminazione sul lavoro e, di conseguenza, di disoccupazione delle persone di queste comunità. 

Solo negli anni ‘90 – anche grazie alle violente proteste di movimenti come Act Up – si iniziò a misurare l’efficacia dei farmaci contro l’HIV (sulla non contagiosità dei pazienti regolarmente in terapia il consenso scientifico è arrivato solo nel 2016). Iniziò ad affacciarsi un atteggiamento nuovo verso la comunità Lgbtqia+, che all’inizio del decennio portò a una parziale depatologizzazione nel manuale diagnostico delle patologie psichiatriche (DSM), e solo nel 2003 alla depenalizzazione dell’omosessualità negli Stati Uniti. 

Da allora, e anche con l’obiettivo esplicito di reclutare le persone Lgbtqia+ bianche nella war on terror dell’inizio dei 2000, le politiche di diversità e inclusione nel reclutamento e nella formazione aziendale incontrano un maggiore successo insieme a quelle di pinkwashing, mirate invece al branding aziendale (e degli stessi Stati Uniti, oltre che di Israele). 

Il costo della diversità

Negli anni 2010 le politiche DEI rispondevano alle sollevazioni di massa negli Stati Uniti seguite alla crisi del 2007-2008, da quelle sul salario minimo (Fight for 15) a quelle contro la violenza sulle donne (Me Too) o contro le violenze razziste della polizia (Black Lives Matter). All’enorme successo di prodotti come le serie Netflix, che promuovono un’emancipazione liberal, si è affiancato un uso del diversity management per scoraggiare l’azione sindacale attraverso promesse di inclusione. Ma la gestione soft del conflitto con la forza-lavoro ha dei costi, cosa che spiega per esempio il minore successo di queste politiche in diversi stati del “vecchio continente” come l’Italia, il cui tessuto di piccole e medie imprese si è rivelato incapace di sostenere questi e altri costi di amministrazione più avanzata.

Crisi economica e polarizzazione politica, con una nuova fioritura delle organizzazioni sindacali, hanno spinto molte aziende statunitensi a decretare insostenibili questi costi, e anche per questi motivi vedono in Trump un interprete credibile. È probabile che lo scontro di classe diventerà ancora più diretto nei prossimi mesi.

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