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Fermare la giostra del capitale finanziario

Tra disuguaglianze crescenti e crisi ambientale: perché la liberalizzazione finanziaria sta minando la democrazia e come un nuovo approccio globale può cambiare le regole del gioco


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Che giudizio dare della globalizzazione?

Nel 1990 circa 2 miliardi di persone vivevano in condizioni di povertà assoluta (il 37,9% della popolazione mondiale): sono scesi a 674 milioni nel 2018 (l’8,8%) e questo si deve, principalmente, alla liberalizzazione del commercio. Si tratta di un risultato epocale nella storia umana, anche se, va detto, di recente il numero delle persone in povertà è tornato ad aumentare (715 milioni nel 2022, il 9% degli esseri umani). Dall’altro lato, soprattutto come conseguenza della liberalizzazione finanziaria, sono fortemente aumentate le disuguaglianze sia nei paesi avanzati sia in quelli in via di sviluppo, tornando su livelli che non si vedevano analoghi a quelli precedenti la Grande guerra: in Occidente e non solo, questi processi hanno messo a rischio anche la tenuta democratica.  

Inoltre, gli ultimi decenni hanno visto una drammatica intensificazione delle pressioni sull’ecosistema: le conseguenze sono state avvertite soprattutto (ma non solo) nei paesi in via di sviluppo, dal sub-continente indiano all’Africa sub-sahariana, cioè in economie povere che, peraltro, in quanto tali, hanno avuto finora poche responsabilità nella distruzione dell’ambiente. Infine, si è registrata un’enorme concentrazione di potere e di conoscenze, soprattutto in grandi corporations sovranazionali che, in questo modo, hanno finito per dominare anche il potere politico e per frenare la diffusione delle innovazioni. 

Tra competizione geopolitica e povertà estrema 

In questo quadro, il ripensamento della globalizzazione in atto da un decennio, avviato dagli Stati Uniti con la vittoria di Trump nel 2016, è andato in direzione contraria a quanto auspicabile. Non è stata in alcun modo limitata la globalizzazione finanziaria, vale a dire il fattore principale di squilibrio dei poteri, accumulo delle disuguaglianze e indebolimento della democrazia; tantomeno è stato modificato il sistema di monopoli intellettuali che frena l’innovazione e garantisce le posizioni di rendita. Sul banco degli imputati è finita invece la globalizzazione commerciale: sono stati reintrodotti dazi, non di rado affiancati da ambiziose politiche industriali (anche nel settore militare); l’esito è stato non solo l’aumento della povertà estrema, come accennato, ma anche un pericolosissimo inasprimento della competizione geopolitica. Con l’amministrazione Biden qualche passo avanti è stato fatto nella tassazione delle multinazionali, però molto limitato (la global minimum tax è stata fissata al 15%). Sul versante ambientale, sono stati siglati accordi poco incisivi e che peraltro prevedono compensazioni modeste, da parte dei paesi ricchi, per gli adeguamenti richiesti ai paesi poveri – cosa che rende anche più difficile una loro adeguata implementazione.  

 

Limitare la globalizzazione finanziaria 

È una impostazione che andrebbe ribaltata: occorre tassare le grandi ricchezze, i grandi profitti e, come con gli accordi di Bretton Woods (1944-1971), tornare a porre limiti alla globalizzazione finanziaria; e in questo modo, recuperare risorse e condizioni affinché gli stati investano nel sociale, nell’ambiente e non siano costretti ad abbandonare la libertà di commercio; occorre poi condividere la ricerca scientifica fra tutti i paesi che mostrano di rispettare i diritti umani e gli obiettivi sociali e ambientali fissati dagli accordi internazionali. Questa via, che può condurre a una nuova epoca di cooperazione globale, richiede però la messa in discussione delle attuali posizioni di potere (economico, innanzitutto) nel mondo avanzato. 

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