Approfondimenti

Per un femminismo ecologico intersezionale

Un’intervista a Stefania Barca 


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“Guardare ai problemi ecologici dal punto di vista femminista non significa fare entrare più donne nel modello che già abbiamo, ma ripensare il modello in un’ottica femminista”, sottolinea Stefania Barca, autrice di Forze di riproduzione. Per un’ecologia politica femminista (Edizioni Ambiente, 2024).
Il modello industriale dominante ha generato disuguaglianze ambientali e sociali, tralasciando la questione di classe: per questo le comunità operaie e marginalizzate hanno pagato il prezzo più alto dello sviluppo.

Che cosa intende per “forze di riproduzione”? Perché sono un concetto utile per capire la prospettiva di genere applicata all’ecologia? 

Per forze di riproduzione non si intendono le donne come categoria, ma tutte le soggettività sociali impegnate nel lavoro riproduttivo e di cura, che va oltre il lavoro domestico e include sanità, istruzione,  agricoltura di sussistenza, tutela dell’identità e delle comunità, nonché la salvaguardia degli ecosistemi.
Questo lavoro, essenziale per la vita umana e per l’ambiente, rimane spesso invisibile nel discorso politico-economico perché il mercato non è in grado di riconoscerne adeguatamente il valore.

Le forze di riproduzione non sono solo attori economici, ma anche soggetti collettivi che organizzano lotte per la difesa delle condizioni di vita. Un esempio sono i comitati cittadini che si oppongono all’inquinamento e alla distruzione del territorio, contrastando progetti speculativi basati sul profitto che producono devastazione e malattia,
finendo poi per aumentare il carico di cura.
Queste mobilitazioni rivendicano il riconoscimento della riproduzione come ambito fondamentale da proteggere.
 
 
Nei territori contaminati, queste lotte vedono spesso un forte protagonismo femminile, in particolare tra le donne della classe operaia, storicamente impegnate nella riproduzione sociale. La divisione sessuale del lavoro le ha esposte in prima linea ai rischi sanitari, rendendole figure chiave nella difesa della salute e dell’ambiente.

In che modo il concetto di forze di riproduzione prende in considerazione la questione di classe?

Il libro analizza l’Antropocene da una prospettiva femminista intersezionale e di ecologia politica, evidenziando non solo le disuguaglianze di genere, ma anche quelle di classe, razza e specie. Uno dei suoi obiettivi è criticare la narrazione dominante dell’Antropocene, utilizzando il pensiero di Val Plumwood, che ha esplorato l’intersezione tra diversi assi di disuguaglianza e la sfera ecologica.

Un capitolo del libro esamina la formazione delle classi sociali in parallelo ai processi di recinzione e privatizzazione delle risorse, che hanno trasformato territori e beni comuni in capitale, escludendo le comunità dall’accesso ai mezzi di sussistenza e creando una classe operaia dipendente dal salario. Questa dinamica ha reso possibile la logica del sacrificio, fondata sull’idea che non esistano alternative al modello economico dominante.

Negli ultimi decenni, la grande accelerazione industriale ha portato non solo a una crescita economica esponenziale, ma anche a un incremento epidemiologico dell’inquinamento e dei rischi sanitari, segnando un passaggio da malattie infettive a patologie degenerative legate agli inquinanti. Tuttavia, il discorso ecologico mainstream spesso ignora il fatto che non tutti gli esseri umani hanno beneficiato allo stesso modo dello sviluppo economico: nel contesto italiano, ad esempio, le comunità operaie e le popolazioni residenti nei territori industrializzati hanno pagato il prezzo più alto, vivendo in ambienti contaminati e subendo gli effetti più gravi della crisi ecologica. 
 
Nel mio ultimo libro, Workers of the Earth (di prossima uscita in italiano per le edizioni Codice), esploro come la crescita economica abbia imposto sacrifici a specifiche classi sociali e territori, imponendo a queste comunità il peso delle esternalità ambientali dello sviluppo. Riconoscere questa realtà è essenziale per immaginare un’alternativa che non si limiti alla sostenibilità, ma che ponga al centro la giustizia sociale e ambientale, ripensando i sistemi economici in modo che non perpetuino disuguaglianze e sfruttamento. 

In che modo la prospettiva di genere può mediare nella risoluzione delle crisi ecologiche? 

L’approccio più diffuso nelle politiche di genere attuali si concentra principalmente sulle pari opportunità, limitandosi a garantire che, ad esempio, nella creazione di nuovi posti di lavoro legati alla transizione energetica ed ecologica, anche le donne abbiano accesso a queste possibilità. Questa impostazione è dominante ed è riflessa anche negli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, in particolare nell’Obiettivo 5, che punta a garantire pari opportunità in ogni ambito, dall’istruzione ai diversi settori professionali, con l’obiettivo finale di assicurare alle donne un accesso equo al mercato del lavoro. 

Il problema di questo approccio è che risulta insufficiente, perché limitarsi a garantire alle donne l’accesso a un mercato del lavoro e a un’economia intrinsecamente distruttiva—basata sullo sfruttamento e la contaminazione delle risorse—non rappresenta una vera soluzione. Anzi, si tratta di una misura che, invece di aprire nuove prospettive, rischia di indebolire la possibilità di ripensare l’economia alla radice.

L’obiettivo non dovrebbe essere solo includere più donne nel sistema economico attuale, ma trasformare questo sistema affinché riconosca il valore della cura e della riproduzione, sia umana che non umana, ponendole al centro del suo funzionamento. Questo approccio è certamente più radicale, più ambizioso e più difficile da realizzare rispetto alla semplice promozione delle pari opportunità, ma è quello che andrebbe perseguito. Anche nel contesto della transizione ecologica, ad esempio attraverso l’economia circolare, emergono le stesse criticità. 

Infatti, nel modello attuale di economia circolare, l’obiettivo principale è creare nuove forme di valorizzazione attraverso il reinserimento dei rifiuti nel circuito economico. Da una prospettiva di genere, la questione viene spesso affrontata garantendo alle donne l’accesso a questi nuovi impieghi. Tuttavia, il problema di fondo rimane: limitarsi a reimmettere i rifiuti nel processo economico non elimina il consumo eccessivo di risorse né risolve definitivamente la questione dei rifiuti, ma si limita a posticiparne gli effetti nel tempo, senza rappresentare una vera trasformazione del sistema. 

Quale potrebbe essere un modello economico alternativo? 

Questa è una questione molto complessa e non esiste una risposta univoca, ma quello che posso dire è che, negli ultimi tre o quattro decenni, l’economia femminista e, al suo interno, l’economia ecologica femminista hanno sviluppato teorie, studi e proposte su questi temi.

Tuttavia, questi contributi vengono spesso ignorati quando si tratta di ripensare i modelli economici, e ci troviamo ancora in una situazione in cui un intero corpus di conoscenze e progettualità, maturato già dagli anni ’90 se non prima, non viene adeguatamente integrato nei processi di transizione. La difficoltà principale sta nel fatto che queste prospettive richiedono una trasformazione radicale dei criteri di valutazione economica: servirebbe una revisione del concetto stesso di valore e delle gerarchie economiche, partendo da una riconsiderazione di come vengono calcolati indicatori come la ricchezza nazionale e il PIL.

Da decenni l’economia femminista chiede di includere nella contabilità economica il lavoro non salariato, ossia il lavoro di riproduzione sociale, che le stesse Nazioni Unite hanno riconosciuto come un elemento fondamentale per il benessere e la ricchezza di un paese. Tuttavia, se continuiamo a misurare il benessere con categorie obsolete che attribuiscono valore solo a determinati tipi di produzione e lavorospesso ad alto impatto distruttivo sugli ecosistemi e sulla salute pubblicarimaniamo intrappolati in un circolo vizioso da cui è difficile uscire. 

Abbiamo assistito all’insediamento di Donald Trump e all’affermazione di un’élite composta da uomini ricchi, potenti e legati al settore tecnologico, che in larga parte negano il cambiamento climatico o, più in generale, i problemi di cui abbiamo discusso finora. Crede che l’unica narrazione rimasta sia quella della “nuova frontiera”, intesa come la prospettiva di colonizzare Marte, trasformando il futuro in un privilegio riservato a pochi? 

Ovviamente no, però il problema è che siamo un po’ a corto di grandi narrazioni alternative, in realtà questa destra è oltre il negazionismo. Perché lì non c’è neanche più soltanto il discorso che il cambiamento climatico non esiste, lì il discorso è che anche se il cambiamento climatico esiste la responsabilità non è del capitalismo, anzi il capitalismo è la salvezza.

Dunque per uscirne ci vuole un nuovo ciclo di accumulazione, ci vogliono nuovi investimenti in soluzioni iper-tecnologiche. Oppure la risposta è che il degrado ambientale esiste ma è colpa degli immigrati, per esempio. Quindi in realtà non tutto alla destra estrema è negazionista, ma la questione ecologica viene anche usata per sostenere politiche di controllo ed esclusione.

Il problema però, come dicevo, è quali grandi narrazioni abbiamo disponibili per contrastare questo tipo di narrazione, di semplificazione? La difficoltà principale, per la sinistra, è quella che semplificare può essere produttivo sul piano politico ma non lo al momento di affrontare la realtà. Quindi a una grande semplificazione non puoi opporre un’altra grande semplificazione a costo di distorcere fortemente la realtà e non riuscire poi ad intervenire in modo efficace.

La verità è che c’è una crisi anche del discorso ecologista tradizionale, quello della separazione dualistica tra l’umano e il non umano, in cui la morale era quella che bisognava fare dei sacrifici per salvare l’ambiente. Diventa sempre più evidente che l’umano non è una categoria omogenea, che ci sono grandi e forti differenziazioni sia geografiche tra nord globale e sud globale, sia sociali all’interno dello stesso nord, delle stesse economie avanzate. 

Dunque, per affrontare la crisi planetaria abbiamo bisogno di affrontare i diversi tipi di disuguaglianze che l’hanno prodotta. Questo è quello che ho cercato di fare in Forze di Riproduzione. Ne è venuta fuori una narrazione complessa, che interseca quattro livelli di analisi, in cui ciò che tiene insieme il discorso è la prospettiva ecofemminista.

 

 

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