Articoli e inchieste

Figli, merito e tagli:
le forbici anti-egualitarie della destra 


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P. ha una settantina d’anni, si veste sempre con una camicia a righe chiare, pantaloni beige, occhiali da vista. Lo si vede quasi tutte le mattine in un parco alla periferia di Bologna. Seduto su una panchina, osserva quello che accade intorno, tra bambini che giocano, anziani che leggono il giornale, persone che portano a spasso il cane. La differenza è che P. nel parco non arriva la mattina, ma ci dorme. Come cuscino un sacchetto con qualche cambio di vestiti, di fianco un carrellino di quelli della spesa: la sua casa, perché la pensione non gli basta per averne una, un letto vero, un posto dove tornare la sera.

E. ha poco più di cinquant’anni, ha lavorato a lungo nel settore della ristorazione fino a che non è stato licenziato e, a quell’età, nel settore sempre più veloce del cibo pensato per i migliaia di turisti che ogni giorno attraversano le città italiane, non ha più trovato un lavoro. Per mesi ha vissuto in macchina.

Y. lavora nel settore della logistica. Dopo mesi di contratti tramite agenzia interinale, a chiamata, a scadenza settimana per settimana e poi mese per mese, con convocazioni la sera per la mattina, è stato assunto con un contratto a tempo determinato e poi indeterminato. Un buon contratto, uno stipendio abbastanza alto per vivere, ma non per avere una casa senza ulteriori garanzie se non quel contratto a tempo indeterminato che in molti si sognano. Così, con un lavoro ma senza casa, per anni è andato a lavorare in autobus in provincia, ha fatto il suo turno, è tornato in città e ha dormito in un parco. E poi di nuovo da capo, si è svegliato nel parco, è andato a lavorare, è tornato. Nessuna casa per lui.

Si potrebbe andare avanti a lungo nel raccontare storie, casi, episodi di persone che in Italia sono finite sotto la soglia di povertà nonostante fossero ben inserite nel tessuto economico e sociale del luogo in cui vivevano. Casi in costante aumento: a dirlo sono i dati istituzionali e associativi che raccontano una realtà chiara.

Il lavoro è precario: 6 contratti su 10 sono a tempo determinato. Braccianti e camerieri quasi tutti stagionali

 

13 milioni e 391mila persone, il 22,8% della popolazione vive in una condizione di rischio di povertà e/o esclusione sociale. Un dato, quest’ultimo, che risulta in riduzione rispetto al 2022, ma rispetto al 2022 tende a crescere la grave deprivazione materiale (Dati Istat)

Massimi storici per la povertà

«La povertà oggi è ai massimi storici ed è da intendersi come fenomeno strutturale del Paese. Le stime preliminari dell’Istat rilasciate lo scorso marzo, e riferite all’anno 2023, attestano che il 9,8% della popolazione, un residente su dieci, vive in uno stato di povertà assoluta»

Si legge nell’ultimo report sulla povertà in Italia della Caritas. Secondo i dati Istat, vivono in uno stato di povertà assoluta 5 milioni e 752mila residenti, oltre 2 milioni di famiglie: persone che non hanno il minimo necessario per vivere dignitosamente perché impossibilitate ad accedere a beni e servizi essenziali.

Ci sono poi 13 milioni e 391mila persone, il 22,8% della popolazione, che vive in una condizione di rischio di povertà e/o esclusione sociale. Un dato, quest’ultimo, che risulta in riduzione rispetto al 2022, ma rispetto al 2022 tende a crescere la grave deprivazione materiale. E, mentre cresce la spesa media delle famiglie, si abbassa la quantità di ciò che si compra, per effetto dell’inflazione, che ha intaccato notevolmente il tasso di risparmio, che risulta ai livelli più bassi dagli anni Sessanta del secolo scorso, afferma la Banca d’Italia. Insomma, si alzano i prezzi, le famiglie non riescono a mettere da parte risparmi e, per chi è vicino alla soglia di povertà, ogni spesa imprevista rischia di far precipitare nella povertà:

«Si rafforzano – scrive Caritas a partire dalle persone che si rivolgono all’ente confessionale – le povertà intermittenti e croniche che riguardano in particolare quei nuclei che oscillano tra il “dentro-fuori” la condizione di bisogno o che permangono da lungo tempo in condizione di vulnerabilità».

C’è poi un ultimo dato che vale la pena riportare e che riprenderemo più avanti: tra i nuclei che si rivolgono a Caritas, il 56,5% sono famiglie con minori, bambini e ragazzi in stato di grave e severa povertà: «Nascere e crescere in una famiglia povera può essere il preludio di un futuro e di una vita connotata nella sua interezza da stati di deprivazione e povertà, anche in virtù del nesso che esiste tra povertà economica e povertà educativa».

Crisi abitativa, Milano la città più cara
Non c'è una strategia generale di lotta alla povertà, non c'è una strategia generale rispetto alla necessità della casa e non c'è nessuna preoccupazione rispetto ai problemi che poi si trovano ad affrontare gli enti locali - Antonio Mumolo - presidente di Avvocato di strada

I nuovi dimenticati

La povertà è un dato reale e un fenomeno ampio e sfaccettato, che mette insieme fragilità sociale ed economica, difficoltà legate al lavoro, alla famiglia, alla casa, problemi di salute, aspetti che attraversano tutte le città italiane e che non possono essere analizzati senza pensare a quelle che sono le politiche nazionali per arginare la povertà e rafforzare il welfare statale.

«Tutti i dati dicono che la povertà sta aumentando e soprattutto aumenta quella fascia grigia di cui fanno parte le persone che arrivano a malapena a fine mese. Persone per le quali basta un niente – un incidente in macchina, una malattia, qualcosa che ti scombina l’equilibrio – per precipitare verso la povertà. Il punto però è che la povertà non è una malattia: si può prevenire se ci sono dei provvedimenti politici anche minimi, ma quando le persone finiscono in strada, precipitano nella povertà, è molto difficile tirarle fuori». Antonio Mumolo è il presidente di Avvocato di Strada, un progetto nato nel 2000 che poi si è trasformato in un’organizzazione di volontariato con l’obiettivo di tutelare i diritti delle persone senza dimora. «In strada – racconta – oggi si trovano lavoratori licenziati a cinquant’anni che non riescono più a trovare una collocazione nel mondo del lavoro. Ci sono imprenditori falliti, padri separati, ci sono piccoli artigiani che hanno perso tutto, pensionati al minimo che non riescono più a pagare un affitto».

Fino a poco tempo fa c’era un fondo, il fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione, nato per aiutare le persone a pagare l’affitto: nel 2023, dopo anni in cui era stato implementato vista anche la crisi causata dal Covid, il governo Meloni non lo ha rifinanziato.

«Il governo – afferma Mumolo – ha tagliato proprio quei fondi che servivano ad evitare situazioni di precarietà estrema, con persone che a un certo punto si sono trovate senza quel minimo di aiuto che gli consentiva di andare avanti».

Non solo, è stato tagliato anche un altro fondo, il fondo per la morosità incolpevole: anche questo non è stato rifinanziato nella Legge di Bilancio 2024.

«Tagliare questi fondi comporta tra l’altro maggiori spese per il sociale, spese che poi sono demandate all’organismo politico che è più vicino alle persone, cioè il Comune: queste persone non scompaiono se togli loro dei soldi, semplicemente finiscono in condizioni di precarietà estrema e chiedono aiuto. La povertà oggi dipende in gran parte da questioni di natura politica, da provvedimenti politici che il governo ha fatto o che il governo non sta facendo – conclude il presidente di Avvocato di Strada -. Non c’è una strategia generale di lotta alla povertà, non c’è una strategia generale rispetto alla necessità della casa e non c’è nessuna preoccupazione rispetto ai problemi che poi si trovano ad affrontare gli enti locali».

Il governo taglia i fondi che servivano ad evitare situazioni di precarietà causata dal Covid

 

La versione anti-egualitaria di Giorgia

La linea del governo Meloni è stata chiara fin da subito: prima di scegliere di non finanziare il fondo affitti e quello per la morosità incolpevole, il colpo più grosso è stato quello dell’abrogazione, dal 1° gennaio 2024, del reddito di cittadinanza, sostituito dal Supporto per la Formazione e il Lavoro e dall’Assegno di Inclusione. La linea la spiega chiaramente il presidente del Consiglio ne “La versione di Giorgia”, il libro-intervista di Alessandro Sallusti a Giorgia Meloni: «Noi vogliamo dare a tutti non il reddito di cittadinanza, ma la piena cittadinanza nel mercato del lavoro, perché se funziona allora arriva anche il reddito, e sarà guadagnato, non concesso, il che ha tutto un altro sapore».

Secondo la dottrina Meloni, la povertà si combatte con il merito, le fragilità con l’impegno, il precariato con il sapore del guadagno, senza differenze da Nord a Sud, tra chi nasce in famiglie e contesti agiati e chi senza possibilità. Peccato che a dire il contrario siano i dati dello stesso ministero del Lavoro, in particolare quelli resi pubblici a giugno 2024 del comitato scientifico che ha valutato gli esiti del reddito di cittadinanza:

«La quota delle famiglie in condizioni di povertà assoluta che hanno beneficiato delle prestazioni di sostegno al reddito raggiunge il massimo del 38% nel corso del 2021. L’efficacia del Reddito di cittadinanza sulla platea dei bassi redditi è risultata più elevata nel corso della pandemia Covid (2020-2021) e ha consentito la fuoriuscita di circa 450 mila famiglie dalla condizione di povertà (circa 300mila nel 2022). Metà della spesa erogata nel biennio, circa 8,3 miliardi di euro, ha contribuito a ridurre dell’0,8% l’indice delle disuguaglianze e dell’1,8% il rischio di povertà».

Sempre a giugno Roberto Ghiselli, presidente del Comitato di indirizzo e vigilanza dell’Inps, ha dichiarato in un’audizione parlamentare che il taglio delle risorse per la lotta alla povertà operato dal Governo è stimato in un 50% in meno rispetto a quelle stanziate per il Reddito. Anche perché, nel frattempo, ad essere messi a rischio sono anche altri fondi, a partire dalla principale misura di sostegno alle famiglie, cioè l’Assegno unico per i figli, che proprio in queste settimane ha creato uno scontro politico nel corso dei lavori per la prossima legge di bilancio: il governo, infatti, secondo le anticipazioni di Repubblica, sarebbe pronto a smontarlo.

L’assegno unico era finito, a novembre del 2023, sotto le lenti della Commissione europea dopo che era stato introdotto il requisito di residenza in Italia da almeno due anni. «Stiamo dando battaglia in Europa perché non si creino problemi visto che la Commissione ci dice che dovremmo darlo anche a tutti i migranti che esistono in Italia che significa di fatto uccidere l’assegno unico», ha subito dichiarato il presidente Meloni. Così, essendo da rimodulare, il rischio ora è che venga stravolta completamente la misura che vale 20 miliardi di euro per sei milioni di famiglie.

La contropartita proposta proprio in questi giorni dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti è quella di agevolare fiscalmente la natalità: meno tasse per chi fa figli, a chi prescindere dal reddito, cambiando, come si legge sul Foglio, “le regole delle detrazioni fiscali” a favore di chi sceglie di avere figli, “anche a costo di eliminare o rivedere” le agevolazioni per chi invece non ne ha. Una proposta paradossale – ma non nuova, Giorgetti in passato aveva addirittura parlato di zero tasse per chi fa figli – che costerebbe tra i 5 e i 6 miliardi di euro. Ma nonostante le basi del welfare vengano ancora una volta minate, la destra continua a prendere piede in un Paese dove gli effetti del sistema economico liberista sono sempre più chiari.

Giorgia Meloni
Giorgia Meloni
Il populismo prende forma - e quindi anche la destra prende campo - in quei segmenti sociali, quel 35% di popolazione che si è impoverita, che ha perso status sociale e che è rabbiosa e affaticata - Enzo Risso, direttore Ipsos

Povertà, populismo, democrazia

«Abbiamo un processo in cui segmenti più bassi della popolazione, ceto medio-basso, ceto popolare, hanno visto ingrossare le proprie file mentre dall’altra parte si sono ingrossate le file dell’upper class. Questo è il quadro generale all’interno del quale si colloca il tema dell’aumento del populismo, che è anche un aumento del rancore sociale: il populismo prende forma – e quindi anche la destra prende campo – in quei segmenti sociali, quel 35% di popolazione che si è impoverita, che ha perso status sociale e che è rabbiosa e affaticata», spiega il direttore scientifico di Ipsos Enzo Risso.

A dirlo sono anche i risultati di un’indagine realizzata a giugno del 2024 da Ipsos global advisor in 22 Paesi, che raccontano come, anche in Italia, ci sia un’ampia consapevolezza del fatto che il sistema economico attuale causi un’eccessiva disuguaglianza economica tra le persone, consapevolezza che però non porta a una volontà di cambiarlo: «Sono persone che non vogliono cambiare il sistema, ma vogliono rientrare forzatamente dentro il sistema, dentro il gioco, passando da destra, perché nel momento in cui la democrazia non li ha tutelati, non li ha salvaguardati, sperano che l’uomo forte, o la donna forte, rappresenti i loro interessi e li faccia tornare in auge».

E così la destra corre dietro alla propria base elettorale, con una linea, ancora una volta, chiara.
«La linea che sta prendendo il governo – continua Risso – è quella da un lato di mettere in campo una serie di misure di facciata che vanno nella direzione di parlare alla propria base elettorale, cercando di dimostrare che si stanno toccando i temi di agenda – il problema della denatalità, del futuro dei figli, dell’economia familiare -; dall’altra parte ha distrutto e continua a indebolire tutti quelli che sono i pilastri del welfare state, di quel poco di welfare state che ci rimane, quindi non solo il reddito di cittadinanza, ma anche tutto quello che riguarda le politiche sulla salute, per la sanità, la riduzione degli investimenti».

Conclude il presidente di Ipsos: «In questo senso c’è una strategia che è quella che potremmo definire tranquillamente post-liberista, che continua ad alimentare un pezzo della propria base sociale senza mettere mano a quelli che sono i grandi problemi di fondo strutturali del Paese e dell’aumento delle diseguaglianze».

Alimentare la propria base elettorale di destra, aumentare le diseguaglianze, non sanare le fratture. Una dimensione in cui calza a pennello l’ulteriore colpo messo in canna dal governo Meloni: la proposta di legge sull’autonomia differenziata. Una proposta che, anche se non venisse poi portata a termine, racconta perfettamente la distanza tra chi sta al governo e il Paese reale. Un paese sempre più povero, dove non si arriva a fine mese, dove si rischia giorno dopo giorno, dove qualsiasi imprevisto può portare nel baratro dell’invisibilità e dell’emarginazione. E dove il welfare continua ad essere messo a rischio anziché rafforzato.

Matteo Salvini
Matteo Salvini

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