Nella competizione per le risorse, a fare la differenza saranno le competenze umane. Ne è un esempio l’ascesa della Cina, dovuta alla costruzione di una filiera interna per materiali provenienti dall’estero. Un modello anche per altri Paesi del Sud del mondo?
La geopolitica delle risorse è piena di ambiguità ma da ultimo ci ricorda che le risorse più importanti di un Paese sono e resteranno quelle umane. La lotta per le risorse non riguarda infatti solo la loro estrazione, ma i processi di trasformazione e la scala per la realizzazione dei prodotti finiti. Solo attraverso questo sguardo si può comprendere la profondità dell’ascesa cinese per la transizione ecologica. E capire come la stessa catena del valore delle materie prime richieda e continua a richiedere diverse tipologie professionali se vista nella prospettiva di aziende, università ed enti di ricerca. Per esempio, nella geologia, nella metallurgia, nell’ingegneria e ovviamente nella chimica. Questa sfida di competenze è da ultimo quella con cui si deve misurare anche l’Europa, oltre a quella delle infrastrutture e dei capitali.
D’altra parte, per comprendere lo stato attuale e il futuro della competizione per le risorse nel Sud globale, la premessa è che non esiste “un” Sud globale. Il successo di questa formula cela infatti una situazione profondamente diversa da quella degli anni ’50 e ’60, in cui emergono i concetti dei “tre mondi”, del “non allineamento”, con le distinzioni tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo.
La differenza essenziale sta nell’industrializzazione dell’Asia orientale: l’ascesa delle tigri asiatiche e poi della Cina ha cambiato la struttura produttiva del mondo, che ha al suo centro, e non nella periferia, le supply chain dell’Asia. Ciò vale per la transizione digitale come per la transizione ecologica. Certo, l’industrializzazione dell’Asia non è ancora un processo compiuto, perché non c’è piena inclusione nel benessere di centinaia di milioni di persone in India e nel Sud-est asiatico, ma l’agglomerato dell’Asia orientale rappresenta comunque la concentrazione produttiva più importante del pianeta.
La velocità dell’ascesa cinese in questo secolo ha impresso un nuovo ritmo alla politica globale delle risorse. La Cina produce da sola altrettanto acciaio quanto il resto del mondo. Il primato cinese nella transizione ecologica passa dai pannelli solari ad aziende di veicoli elettrici come Byd, che ha ormai oltre 900.000 dipendenti e oltre 100.000 addetti in ricerca e sviluppo: come ho cercato di spiegare nei miei libri Il dominio del XXI secolo (2022) e Geopolitica dell’intelligenza artificiale (2024), ormai non possiamo analizzare le grandi questioni economiche e tecnologiche del pianeta senza considerare un gigante come Byd. Nell’infrastrutturazione per l’energia, la Cina ha una scala che gli altri Paesi non possono raggiungere.
Uno degli elementi ancora più sottovalutati dell’ascesa cinese nello scacchiere delle risorse per la transizione è il posizionamento nella chimica e nella trasformazione dei materiali. In sintesi, la strategia cinese non è stata tanto l’acquisizione di miniere e di contratti per alcune materie prime negli altri “Sud” del mondo. C’è stato anche quest’aspetto ma non è essenziale per lo sviluppo quanto la costruzione di una filiera interna per la trasformazione e il trattamento dei materiali che vengono dall’esterno. Nella prospettiva cinese, la logica delle risorse è stata quindi sempre votata all’industrializzazione, allo sfruttamento della scala del proprio mercato.
In questo senso, il cammino cinese può essere considerato da altri Sud del mondo, che nel contesto delle risorse hanno quasi solo un ruolo estrattivo. La concentrazione di talune risorse può essere anche una maledizione e, soprattutto, non va essere considerata elemento di per sé sufficiente nel cammino per il benessere: non può esserlo, proprio perché le risorse interagiscono sempre con altre asimmetrie di potere. Le miniere di cobalto e di rame in Repubblica Democratica del Congo e Zambia hanno visto numerosi investimenti cinesi, e in altre materie prime sono cresciuti gli interessi di attori come gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia, l’Arabia Saudita. La logica principale resta predatoria, come nel caso di altri attori minerari occidentali. Il caso del nichel in Indonesia indica una prospettiva in parte diversa. Lo Stato-arcipelago, quarto Paese più popoloso del mondo, è oggi il maggiore produttore di nichel e ha utilizzato le proprie risorse per agganciare la domanda cinese e gli investimenti di Pechino ma anche per tentare di sviluppare le proprie industrie e le proprie strategie, talvolta mettendo gli investitori stranieri l’uno contro l’altro. Tutto con imponenti costi ambientali, non va dimenticato, ma sempre col tentativo di fare un salto di capacità industriale e quindi politica.
Come abbiamo ricordato, sono i talenti a fare la differenza: la capacità di costruire supply chain integrate, gli ecosistemi della trasformazione, la diffusione di infrastrutture, lo sviluppo di nuove imprese. L’arrivo di alcuni Paesi del Sud globale, in particolare africani, a una logica di benessere sarà determinata soprattutto dalla capacità di agganciare questi fattori.
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