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Un’elezione esistenziale, alla fine della storia


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Le elezioni americane 2024

Le elezioni presidenziali americane del 2024 sono tra le più imprevedibili di sempre. Lo spazio tra i due candidati è talmente ridotto che potrebbe tradursi in una vittoria per due soli grandi elettori all’interno del collegio elettorale: 270 a 268, se per esempio Harris dovesse spuntarla negli stati ancora in bilico del Midwest/Northeast, ma Trump vincere quelli del Sud. Sarebbe il margine più sottile dal 1876. Per dirla in gergo, la corsa si muove oggi in quello spazio probabilistico che negli Stati Uniti chiamano toss-up, l’espressione che descrive il lancio della moneta – un perfetto 50 e 50. 

Ma perché tanta indecidibilità? In un certo senso non potrebbe essere altrimenti, considerato quanto i profili personali e storici dei due candidati si completano a vicenda, la simmetria è tale da non lasciare alcuno spazio vuoto nel mezzo. E questo è vero a pressoché tutti i livelli che uno scontro di questo tipo implica: quello dei simboli, quello dell’aritmetica elettorale, quello della demografia e pure quello della psicopolitica. 

Di sicuro c’è che la mappa elettorale americana si trasforma di continuo, perché è il paese a non star mai fermo, e questo è un momento d’instabilità anche superiore alla media. Coalizioni e maggioranze si riallineano, cambia il modo in cui i gruppi sociali si mettono assieme, a volte facendo giri inaspettati o addirittura controintuitivi.  

Lo storico Rick Perlstein: «Non molto tempo fa in molti pensavano che un elettorato sempre più multirazziale e multietnico avrebbe finito per consegnare vittorie su vittorie ai democratici. La demografia è destino, dicevano, con crescente convinzione negli anni di Barack Obama, la cui elezione avrebbe dovuto dimostrare che quel futuro arcobaleno era finalmente arrivato. Era già allora una teoria pericolante, e quanto pericolante fosse ci è tanto più evidente adesso – anche alla luce di come il sostegno della classe lavoratrice non bianca per Joe Biden sia calato negli ultimi anni». 

Partiamo dai dati

Nel 2012, a seguito della sconfitta di Romney contro Obama, i repubblicani discussero l’idea di diventare più inclusivi, di uscire dal sempre più stretto recinto che li voleva partito dei bianchi e solo dei bianchi. Le ragioni erano essenzialmente pratiche, temevano di perdere in maniera anche più netta nel 2016. Poi però quell’anno non solo vinsero, ma lo fecero spingendo ancora di più sulla leva del nazionalismo monocolore, con Donald Trump come paladino di una nuova vecchia era.  

La storia raramente procede per linee rette, a ogni azione corrisponde una reazione e poi da lì una catena di contro-reazioni potenzialmente infinita. Questo zigzagare emerge chiaro in tutta una serie di tendenze socio-elettorali che proprio in questi anni vediamo invertirsi. Le fasce della popolazione con i redditi più alti votano meno repubblicano di prima, mentre quelle con i redditi più bassi si allontanano almeno un po’ dai democratici. Trump guadagna tra le minoranze, mentre Harris forse ruba qualcosa tra i bianchi. Stati che tradizionalmente erano di un partito o dell’altro ora stanno nel mezzo, fanno avanti e indietro. Insomma, i due poli sono sì sempre più distanti, ma tendono anche passo dopo passo all’equilibrio. Il 50 e 50 appunto. Le uniche traiettorie che ancora divergono, separando chiaramente un partito dall’altro, sono quella del genere (le donne votano più democratico, gli uomini repubblicano) e quella dei tassi d’istruzione (non laureati per Trump, college degree per Harris). 

“They play into each other”

Queste categorie analitiche però nel mondo reale non sono compartimenti stagni come nei grafici del censo, sono invece tutte impastate tra loro. Si sovrappongono, allacciano, intrecciano e trasformano a vicenda. Gli americani, che hanno il dono della sintesi, in un’espressione sola direbbero they play into each other. L’unica cosa che possiamo distinguere con chiarezza in questa fantasia di linee incrociate – la cui figura complessiva è ancora in divenire, sempre che si stabilizzi mai – è che il paese sta facendo la muta, cambia pelle.

Anche per questo poi l’immigrazione finisce al centro della campagna elettorale, come ci spiega il professor Arnaldo Testi: «Nell’ultimo mezzo secolo gli americani nati all’estero sono passati dal 5% della popolazione al 16%, come negli anni di picco della prima grande ondata migratoria, un secolo fa. I nuovi arrivati sono più di 60 milioni, di tipo molto diverso da quelli di allora, che erano di origine europea. Ora tutto è cambiato. I nuovi migranti vengono per metà dalle Americhe a sud del Rio Grande, sono quindi ispanici; per un altro quarto vengono dall’Asia, un po’ dal Medio Oriente e dall’Africa subsahariana, solo spiccioli dall’Europa (Russia). Il risultato è che i residenti bianchi euro-discendenti sono in netta diminuzione da decenni, erano l’89% nel 1960, sono il 58% nel 2020 e intorno al 2050 saranno il 47% – saranno cioè minoranza. E ciò provoca, soprattutto nelle loro componenti più popolari, paure per il futuro, ansie da perdita di status, incertezze esistenziali. In alcuni gruppi provoca reazioni rabbiose, anche eversive». 

Eversive. Perché se le società democratiche sono le prime nella storia umana a mettere da parte ogni sintesi rigida e totalitaria delle componenti che si muovono al loro interno per abbracciare la propria natura conflittuale e indeterminata, allora la discussione intorno ai livelli d’inclusività o esclusività che vogliamo praticare coinvolgerà per forza di cose fondamenta e presupposti stessi del sistema. Dicevamo sopra, il dibattito diventa esistenziale. Da questo punto di vista, non è un caso che l’elezione di Donald Trump in reazione a quella di Barack Obama, il primo presidente nero, abbia agitato l’impalcatura socio-istituzionale tutta, al punto che oggi non possiamo più essere sicuri che reggerà a un’altra scossa. 

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