Chi ha vinto la lotta di classe?
«Di fatto, negli ultimi vent’anni è stata combattuta una guerra di classe, e la mia classe l’ha vinta». La celebre affermazione del multimiliardario Warren Buffett in un’intervista del 2011 riassume non solo il punto di vista dei super ricchi sulla “grande crisi” del 2007-2013, ma anche il senso e l’esito del ciclo politico-economico neoliberale, avviato alla metà degli anni Settanta, che ha affermato il primato dell’individuale sul collettivo, dell’economia sulla politica, della concorrenza sulla solidarietà, del merito sull’uguaglianza.
Nella guerra combattuta e vinta dai dominanti contro i dominati, ha scritto Marco D’Eramo, uno degli strumenti più efficaci è stato quello di «convincere questi ultimi che non ci fosse alcuno scontro», che le classi si fossero «estinte, spazzate via dalla storia» (Marco D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli, 2020). Se tutti siamo imprenditori di noi stessi, se cioè siamo tutti capitalisti, in quanto proprietari e responsabili del nostro «capitale umano» – e questo vale per il fattorino di Amazon come per la migrante in cerca di fortuna in Europa, per il manager d’azienda come per il musicista – non ha più senso parlare né di classi in conflitto, né di capitale e lavoro.

Cosa alimenta dunque, oggi, il conflitto sociale? Quali risorse politiche restano a soggetti sempre più disgregati e disorganizzati per esprimere il proprio scontento? Quale peso hanno gli interessi collettivi, e quale invece le emozioni di paura o rabbia? Quanto contano le appartenenze di classe, e quanto quelle legate allo status ascritto – genere, sessualità, nazionalità, “razza”, religione?
“La rabbia”
Secondo Carlo Invernizzi-Accetti (Vent’anni di rabbia: Come il risentimento ha preso il posto della politica, Mondadori, 2024), i movimenti e le manifestazioni di protesta che hanno ripreso ad agitare il panorama politico euroamericano dei primi decenni del XXI secolo – dai no-global ai no-vax, dai “V-Day” di Beppe Grillo alla Brexit, da Occupy Wall Street all’elezione di Trump, dai “Gilets jaunes” all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 – hanno in comune la «rabbia» che deriva da «un senso diffuso di mancanza di riconoscimento, cioè di umiliazione per un presunto declassamento o oltraggio al prestigio sociale di ampi strati della popolazione», indipendentemente dai livelli di benessere materiale di cui gli individui possono effettivamente godere. Questo senso di misconoscimento è, a sua volta, il prodotto di fattori sistemici di tipo non (solo) economico. In particolare, sostiene l’autore, pesa la grave crisi in cui versano le due componenti principali della «lotta per il riconoscimento» nelle democrazie moderne: la partecipazione attiva e il conflitto strutturato.
Più isolate e sole, private dei canali tradizionali di intervento politico, afflitte dalla percezione di impotenza e irrilevanza, avvolte dal senso di minaccia multiforme del tempo della “policrisi”, indotte a vedere nel proprio vicino più un competitor che un alleato, e nelle istituzioni democratiche dei nemici da combattere anziché degli organismi da influenzare o conquistare, sempre più persone (se non optano semplicemente per l’“exit”), esprimono la propria “voice” in forma di protesta rabbiosa e disorganizzata. E sempre più cercano conforto nel lessico dell’identità, quale promessa di certezza e stabilità.

La crescita dei conflitti identitari
I conflitti identitari occupano oggi uno spazio crescente nel campo politico. «La politica identitaria», scrive Francis Fukuyama «è la lente attraverso la quale gran parte delle tematiche sociali vengono viste su tutto l’arco dello spettro ideologico», da destra a sinistra (Fukuyama, Identità, UTET, 2018). Non si tratta solo della mobilitazione delle identità svalutate e marginalizzate ma, sempre più, anche di investimenti emozionali sulle identità maggioritarie, che pretendono di essere riconosciute come l’unico “vero” popolo, o modello familiare, o credo religioso, escludendo altri gruppi dal godimento di pari diritti civili, politici e sociali.
Ciò che caratterizza questo insieme di mobilitazioni è il fatto di assumere l’identità collettiva come oggetto del contendere e posta in palio nelle battaglie per ottenere riconoscimento. Con l’effetto di una politicizzazione senza precedenti di terreni tradizionalmente estranei all’agire politico organizzato, come la sessualità, la cultura, gli stili di vita. Ma, altrettanto, con l’effetto di frammentare gli sforzi delle identità oppresse, a scapito di ogni lotta collettiva contro le strutture di potere. E, contestualmente, di ridisegnare il conflitto politico come scontro tra identità maggioritarie e minoritarie, mentre nuove polarizzazioni culturali spostano il fronte delle lotte sempre più lontano dalle rivendicazioni di diritti sociali.
Ricostruire alleanze
Sotto il peso dell’ordine neoliberale, negli ultimi decenni, la mancanza di soggetti politici capaci di articolare il conflitto di classe attraverso i principali canali di partecipazione ha prodotto frammentazione delle identità e disarticolazione tra emozioni e politica trasformativa. Oggi che quest’ordine manifesta la sua crisi (Gary Gerstle, Ascesa e declino dell’ordine neoliberale, Neri Pozza, 2024), si possono aprire nuove opportunità per una politica che costruisca alleanze tra i “perdenti”, controbilanciando le domande di riconoscimento con l’enfasi sugli interessi comuni e la solidarietà?