“La cittadinanza deve essere ricostruita come spazio di lotta collettiva”

A colloquio con Lea Ypi


Articolo tratto dal N. 35 di Gli ostacoli del quorum Immagine copertina della newsletter

Nel suo libro “Confini di classe”, lei affronta il tema della cittadinanza all’interno del sistema capitalista. In che modo l’economia di mercato influenza i diritti di cittadinanza? 

Nel sistema capitalista, la cittadinanza si trasforma in una merce come le altre. Da strumento di partecipazione democratica diventa un bene esclusivo, accessibile solo a chi possiede determinate risorse economiche, culturali o sociali. Si pensi alla facilità con cui gli stati liberali si aprono ai “golden visa” e permessi di soggiorno accelerati per investitori e al contrasto con l’impossibilità d’accesso alla cittadinanza dei residenti immigrati senza reddito. Questo processo alimenta disuguaglianze, esclude i più vulnerabili e svuota la cittadinanza del suo significato emancipatore. Invece di unire, la cittadinanza diventa un meccanismo di sfruttamento, selezione e controllo — proprio come ai tempi in cui il diritto di voto era riservato a chi possedeva beni, parlava la lingua colta, o sapeva leggere e scrivere: una cittadinanza per pochi, basata su criteri arbitrarie profondamente ineguali.

Come si può saldare la lotta di classe con la lotta per i diritti di cittadinanza? In che modo il referendum dell’8-9 giugno può essere un punto di inizio di questa lotta collettiva?

Sono due volti dello stesso conflitto: quello tra chi ha accesso al potere — economico, politico, simbolico — e chi ne è sistematicamente escluso. Per lungo tempo la cittadinanza è stata concepita in termini giuridici identitari: un’appartenenza che si eredita o si vende, compra o scambia. Ma la cittadinanza, se vogliamo che torni ad avere un significato democratico, dev’essere ricostruita come spazio di lotta collettiva: uno strumento per rivendicare diritti, per organizzare la solidarietà, per redistribuire potere. In questo senso, la cittadinanza è il terreno su cui si gioca la lotta di classe in società in cui le fratture economiche e quelle giuridico-amministrative si sovrappongono. Pensiamo a chi lavora, produce valore, si sottopone alle leggi, ma non ha diritto di voto, non ha voce nello spazio politico. Il referendum dell’8-9 giugno può rappresentare un punto di partenza simbolico ma importante proprio perché chiama in causa una questione centrale: chi è incluso nella comunità politica e a quali condizioni. È solo un piccolo passo perché non abolisce del tutto i criteri di accesso alla cittadinanza, ma è comunque un passo nella giusta direzione.

Per spiegare fenomeni come disuguaglianze, migrazione e cittadinanza lei parla anche di crisi della democrazia liberale: qual è il nesso tra questi fenomeni e il declino democratico?

Si comprende attraverso tre crisi interconnesse. La prima è una crisi di rappresentanza politica: i partiti hanno perso la capacità di mediazione tra interessi collettivi e principi di cambiamento della società, e funzionano come aziende che fanno solo marketing e vendono prodotti a consumatori-elettori, svuotando il legame tra società civile e stato. La seconda è una crisi sociale dello stato democratico che ha progressivamente abbandonato la sua funzione redistributiva e protettiva, lasciando spazio alla precarietà e alimentando sfiducia e risentimento tra i cittadini.
La terza è una crisi della solidarietà internazionale: l’idea di conflitti globali di matrice socioeconomica si indebolisce, sostituita da logiche identitarie ed escludenti che vedono nel migrante o nello straniero che scappa dalla guerra, dalla crisi economica, o dalle emergenze sanitarie, non un compagno di lotta, ma un capro espiatorio.Queste tre crisi si rafforzano a vicenda, producendo un ordine politico che appare democratico solo nella forma, ma è sostanzialmente oligarchico, nel senso classico del potere detenuto dai pochi con più mezzi economici, e che finisce per riprodurre le ingiustizie che si propone di risolvere.

Assistiamo a normative sempre più repressive sulla cittadinanza: negli Stati Uniti l’amministrazione Trump sanziona i “migranti irregolari” con multe da milioni di dollari. Che radice ha l’odio di classe in queste politiche?

Sono politiche che non nascono da un intento di controllo amministrativo, ma da una volontà punitiva e disciplinante, che mira a scaricare sulle spalle dei più deboli le contraddizioni sociali prodotte da un ordine economico iniquo. L’“irregolarità” non è un dato oggettivo: è una condizione prodotta politicamente da un ordine globale, che consente di creare una classe lavorativa iper-sfruttabile e priva di diritti e di dividere i lavoratori nativi da quelli immigrati. A questa dimensione di classe si intrecciano inevitabilmente il razzismo e la violenza di genere: non tutti i migranti sono trattati allo stesso modo. Questo ci dimostra come lo Stato non sia affatto neutrale, ma abbia un carattere di classe: diventa uno strumento che legittima l’accumulazione per pochi attraverso la repressione dei molti, e che rafforza le disuguaglianze punendo chi è già ai margini. La lotta di classe si traveste da legalità, ma agisce per rafforzare le gerarchie su cui si regge l’ordine economico e politico esistente.

Perché l’Unione europea ha adottato un approccio di chiusura, svalutando il diritto internazionale e il diritto di asilo, alla cittadinanza europea? Quali sono le possibili conseguenze di questa postura? 

Perché in Europa si è purtroppo stabilita un’egemonia discorsiva per cui la minaccia ai suoi valori viene attribuita a chi è culturalmente diverso. Invece di interpretare i conflitti legati alla globalizzazione come una lotta tra chi ha il potere economico (e di conseguenza anche politico) e chi ne è privo, lo si legge come uno scontro tra identità, comunità “incompatibili” e culture “minacciate”. Invece di guardare in faccia il fallimento delle politiche neoliberiste degli ultimi decenni, la strumentalizzazione della politica da parte del capitale, l’Europa insegue una logica emergenziale e securitaria dettata da impulsi conservatori e nazionalisti e da un’interpretazione di matrice culturale delle ragioni della crisi. Il rischio è che così venga completamente distrutta una tradizione che almeno in teoria aveva ispirato l’ideale dell’Europa nel dopoguerra e che vedeva nella cooperazione tra stati, nell’universalismo e nella giustizia sociale i fondamenti di un ordine diverso da quello che aveva portato alle catastrofi del passato. 

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