Abitare discontinuo
La città contemporanea è solcata in modo sempre più profondo dalle traiettorie di popolazioni in movimento. Migranti, lavoratori temporanei, studenti fuori sede, insieme ai flussi sempre più pressanti di un turismo invadente, abitano in modo imprevedibile – ovvero non pianificato – i luoghi del proprio transitare. Occupano, attraversano, trasformano gli spazi urbani senza che si inneschi con la città un processo d’appartenenza.
Un abitare discontinuo, precario, continuamente interrotto, pare dare forma all’instabilità connaturata al tempo attuale. Sembra, secondo molti, rappresentare la condizione esistenziale che ci sottende: dal secolo nomade di Vince alla modernità liquida di Bauman all’uomo flessibile di Sennet, fino alle più recenti declinazioni in termini di “fluidità” dei modi in cui la società si rapporta con il mondo, alcune descrizioni sono divenute ritratti della nostra epoca.
Eppure c’è una profonda disparità nell’abitare di chi sceglie di spostarsi temporaneamente dai propri luoghi, e in quello di chi lascia il Paese d’origine senza trovare nel nuovo territorio un altro possibile radicamento. Ed è una frattura che si gioca nel solco della libertà di movimento.
In ragione dell’accesso o del divieto a una mobilità legittima, si vanno delineando nuove forme di classificazione sociale (Khosravi 2019), con una polarizzazione tra élite di un mondo globalizzato che ne ha progressivamente favorito gli spostamenti, e migranti che si spostano seppur costretti all’immobilità.
Appartenere e rimanere su una soglia
Di questo divario la città è teatro che mette in scena, insieme alle disuguaglianze espresse da un diverso abitare, le contraddizioni rispetto a diritti di cittadinanza riconosciuti o negati in base alla provenienza di ciascuno. “I confini sono selettivi e mirati” (Rumford 2006): se alla scala globale abitiamo un territorio segnato da confini e respingimenti, alla scala urbana riproponiamo un sistema di frontiere che rendono l’accesso ai servizi di welfare – oltre che a un’istruzione e a un lavoro qualificati – di fatto irraggiungibile proprio per coloro che più hanno faticato ad accedere alla città stessa.
Una linea netta e discriminante separa chi appartiene –– a un territorio, a un diritto, a un sistema –– da chi è collocato su una soglia, in uno spazio intermedio tra il dentro e il fuori, come lo sono i migranti nell’essere estromessi dal luogo d’origine e da quello d’approdo.
Questo significa che una componente rilevante della città vive una sospensione del diritto di cittadinanza, e un abitare privo di quel diritto di avere diritti (Rodotà 2012) che è il fondamento della polis. Significa che, in quanto esclusiva, la città stessa diventa apolide.
Ripensare le città attraverso gli occhi dei migranti
E tuttavia è proprio quella condizione tra l’essere qui e altrove, al contempo interna ed esterna al territorio che si trovano ad abitare, a rendere i migranti i soggetti privilegiati nel suggerire altre immagini e idee con cui la città può essere pensata. E progettata.
Il loro sguardo decentrato apre infatti a un progetto di città strettamente legato alla continua riformulazione del proprio rapporto con il contesto, segnando una differenza radicale con un abitare e una progettualità fondati su processi di identificazione e appartenenza. Nella specifica disposizione dei migranti verso l’ambiente in cui si trovano a definire, proporre, calibrare la propria esistenza, la relazione che si innesca con lo spazio non è di riconoscimento bensì di scoperta: non è il “sentirsi a casa”, dove ritrovare le proprie abitudini, ma è un abitare che richiede necessariamente apprendimento, condivisione, disponibilità al confronto. È un “abitare la distanza” (Ferrari 2008, Rovatti 2007), un luogo aperto all’esplorazione del nuovo.
Si inscrive in questo orizzonte il progetto di esplorare la città attraverso lo sguardo dei migranti, chiedendo loro di disegnare, secondo un metodo codificato, la mappa mentale della città d’approdo (Pezzoni, 2020). Un esperimento che, a partire da una diversa geografia con cui la città può essere rappresentata, propone uno strumento di conoscenza e di mediazione attraverso cui apprendere un nuovo linguaggio, facendo spazio a un vocabolario in cui inizia a esistere quell’alterità che ancora non aveva voce.
Con uno scarto, rispetto alle politiche attuali: quello di lavorare su uno spazio di ideazione – di disegno e di parola – accogliendo e al contempo generando quell’abitare senza abitudine che è specifico dei migranti, e che potrebbe diventare la condizione su cui costruire il progetto di città che tutti abitiamo.
Riferimenti bibliografici
Bauman Z., 1999, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna
Ferrari, 2008, Saggio-poema del pensarassente, Anterem Edizioni, Verona
Khosravi S., 2019, Io sono confine, Eleuthera, Milano
Pezzoni N., 2020, La città sradicata. L’idea di città attraverso lo sguardo e il segno dell’altro, O barra O edizioni,
Milano (seconda edizione; prima edizione 2013)
Rodotà S., 2012, Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari
Rovatti P.A., 2007, Abitare la distanza. Per una pratica della filosofia, Raffaello Cortina, Milano.
Rumford C., 2006, Theorizing Borders, European Journal of Social Theory, 9 (2), pp. 155-169
Sennet R., 2016, L’uomo flessibile, Feltrinelli, Milano
Vince G., 2023, Il secolo nomade. Come sopravvivere al disastro climatico, Bollati Boringhieri, Torino
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