Come sarà l’America il 6 novembre mattina?
Andremo ancora in America a prendere aria. Ci andremo sia che che suoni la libertà per tutti, sia che dilaghino fake-news. Ci andremo, sia che trionfi “K-Amala” o che ritorni il “Carota”.
Ricordo come tutto sia cominciato, almeno per noi, qui sulle sponde del Mediterraneo.
Prima sono quelli che non hanno niente che varcano il mare. L’America per chi ha solo braccia da vendere è il luogo dove cercare di avere una possibilità. Poi sono Agnelli, Pirelli, Olivetti ad andare dall’altra parte dell’Atlantico. Per loro America è vedere come si fa industria e impresa. Poi è Antonio Gramsci a intercettare Walt Whitman e a pubblicarlo in uno dei primi numeri de “L’Ordine nuovo” settimanale (per la precisione nel n. 5 del 7 giugno 1919) perché pensare futuro vuol dire avere malessere nel presente.
Dieci anni dopo è Cesare Pavese a creare un flusso non casuale, trasferendo in Italia, da un punto di vista narrativo, il sogno americano. È il 1930, quando Pavese pubblica il saggio su Sinclair Lewis. È solo l’inizio. Poi arrivano: Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, Moby Dick di Herman Melville, Riso nero di Sherwood Anderson, Dedalus di James Joyce, Il 42 parallelo o Un mucchio di quattrini di John Dos Passos (ora tutti leggibili qui)
In quel mito rientrano molte cose che poi ritorneranno nella musica rock, nella scoperta della cultura “on the Road” anche in quel misto di mondo tra le due rive dell’Atlantico che è il cinema di Woody Allen o la riscoperta dell’America profonda di C’era una volta in America. Anche se quella possibilità, ci avvertiva Susan Sontag nel 1966, era dubbia. “This is a doomed country, it seems to me”, così scriveva allora. Il processo emancipativo e affermativo di sé, con esiti di successo si muoveva allora su principi specularmente opposti a quelli in auge ora (tanto là come qua): l’abbandono della propria identità come ancora di salvezza per chi voleva provare ad avere una chance di futuro. L’esatto opposto del tempo attuale che è la coltivazione della purezza di sé, comunque della non contaminazione.
Into the Wild
Dunque, quale America vedremo il 6 novembre mattina?
Proviamo a battere una strada diversa.
America è scontentezza, malessere, rifiuto. Non significa solo: «Non mi basta», «Voglio di più», ma anche, «Non ci sto!».
«Non ci sto!» oggi vuol dire sia voglio eguaglianza, sia diffido di chiunque.
Nel primo caso la storia ci offre molti volti iconici e molte parole simbolo dalla storia di Cassius Clay/Muhammed Alì alle parole che Christopher Johnson McCandless pronuncia nell’agonia che lo accompagna rapidamente alla morte in Into the Wild: “Happiness is only real when shared”. “La felicità è autentica solo se condivisa”.
Nel secondo caso il principio-guida è la rabbia dell’America profonda che diffida di chiunque e che si fida solo di chi gli promette protezione e tutela, mentre in cambio chiede fiducia cieca.
Lo scontro è intorno a due poli: spingere la storia oltre i binari per dare una possibilità a un diverso futuro dando voce a chi ne ha avuta poca finora; oppure trattare il presente come degenerazione e rimettere le cose al loro posto. A tutti i costi. Anche diffondendo “fatti alternativi”, che nella neolingua di Oceania vuol dire “fake news”.
“K-Amala” e “Carota”. Comunque vada non sarà possibile vivere domani senza vedere concretamente cosa accade nelle strade d’America.
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