Non ci si diverte senza soldi — dicono i fiorentini — e senza soldi non si fa neanche ricerca. Se oggi, giustamente, l’attenzione è sulla ricerca universitaria, sotto la mannaia dei tagli finanziari, bisogna però considerare un contesto più ampio. In Italia, secondo Istat, la parte più cospicua dei finanziamenti alla ricerca è assolta dal settore privato (53,2%, ca. 14,5 miliardi), seguita da istituzioni pubbliche (35,6%, 9,7 miliardi) e finanziamenti esteri (9,4%, circa 2,6 miliardi). Le Università, in questo quadro, rappresentano l’attore più rilevante, con il 24,6% della spesa complessiva per ricerca. Nel caso delle Università, la spesa per ricerca è per la maggior parte finanziata da istituzioni pubbliche (ca. 80%), mentre il finanziamento privato è meno dell’8%.
Quanto investiamo in Ricerca e Sviluppo?
In termini storici, il dato R&S 2022 era in crescita rispetto agli anni della pandemia (+5% rispetto al 2021). Tuttavia, il dato italiano può essere interpretato significativamente solo se guardato in ottica comparativa. Dati OCPI alla mano, nel 2022, la spesa per R&S italiana ammontava a 1,3% del PIL. In confronto, la media OECD è di 2,8%, mentre quella UE è del 2,1% del PIL complessivo.
Il ritardo italiano, se così si può dire, appare ancora più evidente quando si prendono singoli stati europei e si guarda ai loro trend di spesa nel tempo. La Germania, ad esempio, è passata da circa il 2% di spesa per R&S nel 1981 a circa 3% nel 2022. Il gap con l’Italia, nello stesso periodo, è passato dall’1,3% all’1,8% — a favore della Germania. In altre parole, nonostante alcune fluttuazioni positive, la spesa per R&S italiana è stata in buona parte stagnante: questo dato diventa evidente quando si considera la spesa della Spagna, che nel 1981 era inferiore di circa 1% a quella italiana, e che nel 2022 è diventata leggermente superiore.
Investimenti accademici e lavoratori precari
Visto il ruolo del finanziamento pubblico nella spesa universitaria, i nuovi tagli alla ricerca contribuiranno a consolidare il trend di investimenti stagnante degli ultimi decenni. Bisogna però considerare un fatto: questi tagli avvengono in chiusura del PNRR, che aveva destinato 8,55 miliardi di euro a ricerca e sviluppo (M4C2). Parte di queste risorse sono state investite per la creazione di nuovi assegni di ricerca, posizioni RTDA, oltre che di dottorati. Si tratta, del ‘pre-ruolo’ universitario.
Questo investimento, secondo le analisi di Roars hanno determinato un incremento vertiginoso del numero di lavoratori precari dell’Università, diventati il 40% nel 2023 secondo il Mur. L’effetto combinato della futura riforma del pre-ruolo, i tagli ai fondi pubblici per la ricerca, uniti alla fine del PNRR in meno di 14 mesi, minacciano effetti esplosivi rispetto al futuro dei precari.
I soldi del PNRR, che avrebbero dovuto essere “investimenti” non si sono tradotti in una aumentata capacità di spesa. Finito il PNRR, occorre chiedersi se il sistema italiano voglia mantenere il trend stagnante degli ultimi decenni, o se ritenga che gli investimenti in ricerca possano effettivamente guidare la crescita del sistema produttivo. La stretta implementazione del Patto di Stabilità, se le priorità di spesa rimangono invariate, determinerà la stagnazione degli investimenti pubblici nella ricerca.
Descrivendo una mia collega, una professoressa francese usò, anni fa, quest’espressione come complimento: ‘temprata dalla durezza dell’accademia italiana’. Il sistema delle imprese italiane sarà in grado di riassorbire l’ampio numero di ‘cervelli’ che verrà, verosimilmente, espulso dalla ricerca pubblica, o sarà qualche altro Paese a beneficiare dell’intelligenza che la nostra università ha temprato?