Ci sono vari modi di pensare il mondo.
Per comodità ne individuo due che si pongono reciprocamente all’estremo.
Il primo: la possessione. Ovvero: ciò che circonda me è mio e il fine della mia azione è non solo impossessarsene ma fare in modo che non ci sia un’alternativa.
Il secondo: percepire l’insufficienza del proprio mondo e, senza scartarlo, capire che per allargare le opportunità si tratta di mettere in chiaro che le risorse (non solo quelle materiali, ma soprattutto quelle culturali, quelle mentali…) hanno un futuro se prendiamo atto della limitatezza di ogni apparato culturale.
Non si tratta di pensare che da qualche altra parte quella completezza ci sia e basti convertirsi a quella identità (sociale, culturale, mentale…) per possederla. La completezza è semplicemente un viaggio di approssimazione al perfetto la cui meta non è raggiungerlo, ma avvicinarsi, rinnovando ogni giorno la curiosità e le domande.
Cercare risorse (non risposte) dall’altra parte. Pensare mondo è possibile se la curiosità vince sull’appartenenza. Per farlo occorre attraversare un confine e vivere quel passaggio non come un’invasione, ma come nascita di una condivisione. Uscire dal proprio campo ristretto vuol dire allargare, mettere insieme cose, farle lavorare, non fermarsi.
Esempio del primo tipo.
Molti anni fa, Piero Zanini raccontò un aneddoto accaduto a Sarajevo nei primi anni ’90, quando la città era dilaniata dal conflitto e divisa.
“Un giorno – scrive Zanini – la gente che andò alla posta centrale di Sarajevo lesse su un muro la scritta: «Questa è Serbia»; la guerra era già scoppiata da un anno. Il giorno successivo su quello stesso muro qualcun altro aveva cancellato quella scritta provocatoria, ma ne aveva aggiunta un’altra: «Questa è Bosnia». Anche questo tentativo di riportare le cose al loro posto, però, durava solo lo spazio di una notte.
Il giorno dopo ancora, infatti, qualcuno cercò di rimettere ordine nella geografia della ex Iugoslavia, cancellò a sua volta la scritta del giorno prima e, con la cruda lucidità di chi non vuole rassegnarsi di fronte alle altrui idiozie, scrisse: «Questa è la posta, stupidi!».
(Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori).
Dubito che oggi qualcuno sia in grado di “rimettere le cose al loro posto”. Ma, soprattutto, dubito che l’opinione di maggioranza sarebbe disposta a sostenerlo o a difenderlo dall’ira dei sovranisti. Probabilmente lo tratterebbe come un sabotatore. E dunque chiederebbe di silenziarlo.
Come si deve rispondere, allora?
Ci sono varie strade da percorrere per dare una possibilità a questa seconda ipotesi, per darle gambe per camminare.
Demolire i confini “come muri”, trasformarli in punti di attraversamento
Ne rilancio una che è stata già proposta molti anni fa e che poi è stata letteralmente mandata a quel paese perché affascinati dal confine come linea che traccia sicurezza.
Dunque, la prima cosa è compiere il passaggio che demolisce l’idea di confine come “muri” e riconsidera il confine come punto di attraversamento. Per farlo si tratta di abbandonare la visione della geografia come geografia politica e fare tesoro del fatto che la cultura di ciascuno e dunque il sapere è il risultato di un ibrido di cose “date in” e “prese in” prestito.
Quella strada è Lucien Febvre a inaugurarla circa un secolo fa, nel 1922. Il primo tentativo è rappresentato da un libro: La terra e l’evoluzione umana.
“Studiati come fini a se stessi – scrive Lucien Febvre in quel testo – i monti, i fiumi e le foreste rivelano a poco a poco e lentamente i loro segreti. Costituiscono dei limiti? Molto spesso indubbiamente. Nella misura in cui sono veramente ostacoli. Ma costituiscono anche punti di congiunzione, centri di espansione e d’irraggiamento, piccoli mondi dotati di un proprio valore e capaci di attrarre, di legare tra di loro, strettamente, uomini e paesi intermedi. In ogni modo, mai «limiti necessari» (L. Febvre, La terra e l’evoluzione umana, Einaudi, p. 354).
L’idea era appunto che:
- la geografia non è “confine”;
- la geografia non è né solo, né prevalentemente “geopolitica”.
Un secolo dopo, quanto spazio ha ancora questa proposta? Non è forse vero che la geopolitica non solo è dominante, ma è l’unica idea di geografia accreditata nel senso comune come essenza vera della geografia? Ricordo che il testo di Febvre in Italia esce nel 1980 (ha avuto una ristampa nel 1992). Evidentemente era troppo esagerato per la cultura media italiana. Probabilmente continua ad esserlo.
Come riprendere il cammino?
Per riprendere un cammino, forse può esserci utile riprendere la curiosità di
Claude Lévi-Strauss, quando nel 1935 prende la strada della foresta amazzonica per cercare altri mondi.
Il risultato sarà Tristi tropici, il testo che apre un percorso non di conquista ma di valorizzazione delle culture altre, con passione, senza impossessarsene, soprattutto essendo disposto a capire senza pretendere di ridurre tutto alla propria persona o alla propria cultura.
Ci mancano molto entrambi. Non si tratta di imitarli, si tratta di partire dalle stesse domande, dalla stessa insoddisfazione, dalla stessa curiosità e dalla stessa voglia di ridiscutere se stessi. Ovvero di prendere la misura dei propri limiti.
Di tornare a interrogare la geografia non come disegno della linea del confine ma come rapporto tra insediamento, paesaggio e vita quotidiana. Qualcosa del genere, per esempio, lo propone la casa editrice Mìmesis con la collana
Kosmos
Questa forse è la cosa che oggi ci manca di più. Significa riprendere un processo di alfabetizzazione intorno alla geografia, che vuol dire anche interesse e curiosità verso gli umani che popolano spazi lontani dalla nostra quotidianità. Senza meraviglia. Avendo molta curiosità e molte domande. Soprattutto la consapevolezza di “non essere dio”, né di andare a cercarlo da un’altra parte.
