Il bisogno di migrare
“Il viaggio di chi resta e i legami di chi parte”, la necessità di rapportarsi in modo nuovo con la terra d’origine per entrambi poiché «restare e migrare sono esperienze inseparabili». Così ha scritto una libraia Feltrinelli, Lella Baratelli, a proposito di Restanza (Einaudi) di Vito Teti.
È una chiave di lettura utile e vale la pena adottarla.
Parola
Vito Teti pubblica Restanza (Einaudi) nel 2022. Quel concetto è il risultato di un percorso durato dieci anni. Raccontarlo è un modo per prendere consapevolezza non di un laboratorio solitario, bensì di un percorso collettivo di consapevolezza.
Teti introduce la parola “restanza” per la prima volta nel 2010, nel suo libro Pietre di pane (Quodlibet). Sa che manca una parola per descrivere una condizione e perciò la inventa. Il fine è dare un volto a condizioni, sentimenti e azioni per poterne parlare.
Vito Teti dunque riempie un vuoto. Quel vuoto consisteva non nell’esistenza di un sentimento, ma nella possibilità di classificarlo e dunque riconoscerlo e, soprattutto, parlarne. Per nominarlo, andava descritto, raccontato. In breve, gli andava dato un contorno capace di non lasciare ambiguità (qualcosa che richiama la condizione che vive, al giorno d’oggi, una parola come “genocidio”).
Aver trovato la parola, tuttavia, non implica la sua diffusione. “Restanza” nonostante parli di un sentimento diffuso non diventa parola virale. Piuttosto a lungo rimane nella condizione di gergo per specialisti o per appartenenza. Insomma è patrimonio di chi già sa.
Neologismo
Passano sei anni e nel 2017 il sito della Treccani la registra fra i «neologismi». È un primo segnale. Poi nel 2021 Alessandra Coppola presenta al Torino Film Festival il documentario La restanza dedicato ad alcuni giovani di Castiglione d’Otranto, nel Salento, che rifiutano la fuga come soluzione ai problemi economici, sviluppano una nuova economia in piccola scala attraverso il recupero di colture dei grani antichi. Castiglione cessa di essere sinonimo di fuga per trasformarsi in «paese della restanza».
Castiglione non è un caso isolato. Riprende, modifica per le proprie necessità esperienze che riguardano anche altre realtà. Ad Agrigento per esempio dove il Centro Studi Giuseppe Gatì, propone un’azione di futuro, rivolgendosi agli studenti e a chi è sulla soglia di lasciare, di riprendersi in mano la voglia di costruirsi un diverso futuro, oppure a Catania dove la Fondazione Marea opera per costruire nuove possibilità futuro.
Un sentimento riconoscibile
Ma il fenomeno non è solo locale e riguarda un dato strutturale espresso da due bocchi di questioni, distinte, ma tra loro strettamente intrecciate:
La prima: nel nostro Paese vi sono circa 5.500 centri con meno di 5 mila abitanti. Di questi circa 4 mila sono ubicati in aree interne, quelle segnate da difficoltà nei collegamenti e da mancanza di scuole, presìdi sanitari, uffici postali, esercizi commerciali, reti telematiche, biblioteche, impianti sportivi, spazi ricreativi, ovvero di tutto ciò che rende accettabile abitare in un luogo.
In termini di superficie questi paesi coprono quasi il 60% del territorio nazionale e la loro popolazione ammonta a circa 13 milioni, quasi il 23 % del totale.
La seconda: per restituire questi paesi a nuova vita non è sufficiente un’agricoltura di prossimità. La mappa della distribuzione della popolazione sul territorio se osservata nelle sue trasformazioni progressive nell’ultimo mezzo secolo propone sempre più macchie dense intercalate da territori abbandonati, spopolati, comunque vuoti, l’effetto è anche la formazione del nostro sguardo che perde progressivamente la visione di continuità di spazi organizzati, tutelati, salvaguardati per incrementare la porzione di spazi tornati selvaggi.
La geografia dell’insediamento come desertificazione e sovraffollamento che rende simile il paesaggio italiano al paesaggio umano delle aree metropolitane delle capitali dei paesi ex-coloniali o delle metropoli del sud del mondo. In mezzo, altro elemento che scompare, è la connessione resa possibile dalla distribuzione dei servizi. Si eclissa la continuità di territorio, si fa sempre più spazio un insediamento a macchia di leopardo che non vuol dire solo la desertificazione dei territori di mezzo, ma anche la trasformazione di quegli stessi territori in luoghi di esilio, in territori disconnessi e dunque candidabili a luoghi deposito di oggetti, di scorie, infine di “umani indesiderati”.
In questo scenario Vito Teti comprende che è arrivato il momento. Si tratta di trasformare quella parola – “restanza” – in un sentimento riconoscibile. Per farlo quella parola non può essere un capitolo di un libro. Deve diventare un hashtag.
Nominare un sentimento, descriverlo, vuol dire dargli cittadinanza nei percorsi che gli umani da sempre intraprendono quando devono dare forma a una cosa. Questo fa Vito Teti con Restanza (Einaudi).
Ecco aver coniato la parola «restanza» ha voluto dire, iniziare a prendere la misura delle cose. Non subire la realtà. Al contrario impegnarsi per essere, almeno in parte, costruttori, attori. Non pupazzi. Né, soprattutto, maschere.