Alle volte i film e i libri riescono a indicare la polpa delle questioni, molto più di un’inchiesta. È ciò che capita alla macchina culturale italiana dalle origini del boom economico del secondo dopoguerra. Milano è lo scenario che consente questa possibilità.
Rocco e i suoi fratelli, di Luchino Visconti; L’integrazione e La vita agra, di Luciano Bianciardi; La notte di Michelangelo Antonioni; Il posto di Ermanno Olmi.
Tra 1960 e 1962 si definisce un’immagine di Milano città industriale. Milano è insieme l’investimento di futuro e poi la resa dei conti con la realtà. Il fare i conti con ciò che ho perso e poi con ciò che non avrò.
La notte ci restituisce un’immagine di Milano assolutamente moderna caratterizzata da una geometria e da una razionalità fredda. È la scena iniziale a trasmettere questo mix di immagini. La macchina da presa sale sulla città seguendo l’elevatore di un edificio fino a darci il panorama complessivo della città e in cui il simbolo è il grattacielo Pirelli.
Se Rocco e i suoi fratelli ci aveva consegnato le diverse forme di integrazione e di disagio, Il posto di Olmi ci restituisce un’immagine di una Milano diversa, laddove il riscatto, la stabilità, la possibilità di acquisire ciò che la condizione precedente non garantiva, si risolve poi nella sottomissione, nello sguardo del protagonista del film di Olmi, Domenico, seduto che china la testa sulla sua scrivania in ufficio dopo aver volto uno sguardo a tutti i suoi colleghi, come lui «compagni di sventura».

La città industriale, Milano soprattutto, è stata a lungo un luogo che ha comunicato: attrazione, repulsione, sottomissione. Luogo a cui si arriva sognando, vi si vive lacerati, e da cui si desidera andarsene.
Non era questa l’immagine che trasmette Luciano Bianciardi in tempo pressoché reale?
Scrive ne L’Integrazione:
“…la grande città era proprio così: un posto duro, cattivo, teso, assillato: tanta gente che corre, che si dibatte, che ti ignora, deve arrivare.
Arrivare dove? – chiesi.
– Chi lo sa? A pagare la tratta che scade, forse, a trovare i soldi per concedersi questo dubitabile vantaggio, provinciale anch’esso, di vivere nella grande città. Guardali in faccia: stirati, con gli occhi della febbre, dimentichi di tutto tranne che dei soldi che ci vogliono ogni giorno, e che servono soltanto quanto basta per stare in piedi, per lavorare, trottare ancora, e fare altri soldi. Un giro vizioso.” [L’integrazione [qui, pp. 140-141]
Sappiamo l’esito. L’immagine soprattutto è ciò che ho perso. Una condizione che alla fine del ciclo industriale del boom economico Enzo Jannacci consegna ai versi di Vincenzina e la fabbrica
A dominare ora – al posto della rabbia, del sarcasmo e della determinazione – sono la tristezza, il ripiegamento, la malinconia.
Come rispondere e tornare a investire in termini di futuro? Non dipende né solo, né prevalentemente da un atto volontaristico. Anche la creatività, la capacità di non sottostare al fato e di prendere l’iniziativa contro le regole di un gioco che ti vuole subordinato, perdente e inerte rimane condizione imprescindibile, necessaria e ancorché non sufficiente per mettere sul tavolo che il futuro non riguarda solo i soliti noti, o i dieci più ricchi del mondo.
Utilizzo i due poli opposti di Giovanni Garofoli, il protagonista che ci ha consegnato il volto di Nino Manfredi in Pane e cioccolata: da una parte la sua sottomissione quando Giovanni guarda da succube il mondo dei nuovi ricchi dalla rete di un pollaio; dall’altra l’atto di rivolta nella scena finale quando scende dal treno che lo riporta forzatamente in Italia dopo essere stato espulso dalla polizia elvetica e decide che ci riprova. Su quel fermo immagine termina il film. Non sappiamo che cosa accadrà dopo.
Ma quella scelta di riscatto parla anche a tutti quelli che cinquant’anni dopo guardano la città che cambia, e avvertono di non avere niente da rivendicare e che niente verrà concesso. Ovvero che il loro destino è subire e sottomettersi.
Per dare al futuro un’ipotesi che non sia solo sottomissione dobbiamo tenere a mente che quell’alternativa oltre il tunnel in cui Giovanni Garofoli si infila per tornare a riprovare in Svizzera, non dipende solo dalla fortuna, o dalla benevolenza. Dipende anche dalla determinazione che lui (e ciascuno di noi con lui) ci metterà.
