A quasi un anno dalla seconda elezione di Donald Trump, l’attività dei suoi oppositori è sempre più frenetica ma anche in un certo senso scentrata. Vanno in piazza, organizzano comizi in sequenza, cercano volti e idee alternative. Difficile però trovare risposte concrete alla violenza che il presidente scarica sul paese – sia essa sociale, legislativa, persino procedurale. Mancano i nessi, anche per reagire.
La mancanza di senso organico è tipica delle fasi di riassestamento politico, e Trump di sicuro ha introdotto parecchie novità. E però rimane un rivoluzionario a metà, spacca il tempo fino a un certo punto: presiede un mondo di costumi senza dubbio alterati, ma in cui è lecito coltivare il dubbio che la gerarchia sociale – quella dei gruppi d’interesse e pressione, ma pure della proprietà e del capitale – sia rimasta la stessa. Anzi, forse è addirittura regredita a forme più primitive.
Nell’era del cosiddetto tecnofeudalesimo (la definizione è di Yanis Varoufakis), il numero delle classi sociali – e quindi dei conflitti incrociati – è aumentato e come sempre quando si aggiungono strati la struttura si è fatta più resistente. Non abbiamo più solo la consueta dinamica di trasferimento del valore dalla forza lavoro a chi detiene il capitale, oggi ancora sopra sta una nuova classe di proprietari – appunto feudali, perché il loro è un potere di rendita – che controllano e affittano gli spazi dove si svolge l’attività economica, i grandi mercati virtuali come Amazon, Facebook, Google, ma anche Uber, Deliveroo e affini. Questa nuova classe di padroni estrae ricchezza da entrambi i due gruppi sottostanti, riducendo anche quelli che un tempo chiamavamo capitalisti, e che all’interno di una logica di mercato stavano in cima alla catena alimentare, a una funzione di mero vassallaggio: fanno profitto, sì, ma in piazze che non sono loro e che non controllano – piazze senza le quali, oltretutto, l’attività economica semplicemente non può più esistere.
La conflittualità trumpiana
E quindi, come si protesta o addirittura si smonta una struttura che è sia inflessibile dal punto di vista tecnico che adesiva da quello politico – nel senso che fa presto ad aderire al potere di turno, proprio perché sostanzialmente depoliticizzata, votata alla sola, pre-morale, autoconservazione?
Sulle prime era stato proprio Donald Trump a dare l’impressione di voler e poter re-inserire l’elemento politico, di antagonismo reale, in questo contesto liofilizzato di piattaforme che si fan passare per mediatori neutrali dei nostri bisogni. Tutta quella carica negativa, quella conflittualità, era parsa a molti se non altro alternativa, politica appunto, e in parte lo era, lo è – ma non in senso profondo, perché la sua spinta è repressiva, mira all’annientamento degli antagonismi sociali, non alla loro esplorazione e sintesi.
Nel marcare ogni volta la distinzione tra amico e nemico, tra chi sta dentro e chi deve andare fuori, il trumpismo persegue l’omogeneità del corpo politico, dimostrando sotto sotto di temere quelle componenti conflittuali all’interno della società che definiscono il politico in senso stretto, e che la democrazia deve abbracciare, o non è. Trump incarna solo un’altra forma di spoliticizzazione (dopo l’impolitico, l’anti-politico?), che ben rappresenta il contesto e le sue gerarchie, invece di alterarlo, e muovere oltre.
La risposta della sinistra americana
La risposta da sinistra non è scontata. Parafrasando Slavoj Žižek, possiamo dire che la dimensione del politico si riattiva quando il soggetto è costretto a prendere decisioni «nell’abisso della sua libertà», senza più alcun principio neutrale superiore a cui riferirsi, solo così è possibile aprire nuovo spazio al confronto con gli antagonismi interni alla società, invece di sedarli o camuffarli. Il politico è quindi la coscienza soggettiva che rompe con l’ordine sociale. Žižek chiama il momento in cui questo accade sospensione politica dell’etica: serve fare le cose sbagliate, che il sistema ci racconta impossibili.
In questo senso, le proteste No Kings, che abbiamo visto partecipatissime nelle ultime settimane, si rivelano inefficaci perché mancano il bersaglio, non facendo altro che ripetere un sapere saputo che in alcun modo mette in discussione la struttura esistente. Peggio: queste manifestazioni, nell’arroccarsi contro l’eversore, di quella struttura promuovono in effetti la conservazione. Sono inevitabili, la cosa giusta da fare – sarebbe impossibile infatti, da sinistra, non protestare la violenza trumpiana – ma proprio per questo aprono solo un altro spazio omogeneo, l’ennesimo consensus tutto d’un pezzo che imballa l’azione sterilizzandola (demonstrating impotence, ha scritto il giornalista americano David S. Bernstein).
La fine delle piazze fisiche
E il problema a guardar bene è ancora più profondo. Le piazze fisiche sono oggi la riproduzione secondaria di quelle online, ormai veri centri non solo dell’attività economica, ma anche di quella politica – un’attività che però hanno trasformato da collettiva a generica, il contrario esatto della coscienza soggettiva di cui sopra. Su tutti i nostri feed, quasi ogni volta che qualcuno prende una posizione politica, vuole attivarsi e partecipare, lo fa attraverso la condivisione dello stesso video, dello stesso appello, della stessa storia. Il numero di repliche è davvero impressionante: il soggetto, la cui affermazione apre e definisce la modernità, non esiste più. D’altra parte, già nel 1947 Adorno e Horkheimer ci avvertivano che l’industria culturale avrebbe omologato le nostre forme di espressione fino a regalarci il cittadino indeterminato, incapace di qualunque azione singolare.
Zohran Mamdani e la rivoluzione possibile
Eppure, proprio in questi ultimi mesi qualcosa è emerso dalla notte della sinistra americana. Dalle primarie in su, Zohran Mamdani, candidato democratico socialista a sindaco di New York e chiaro favorito per la vittoria finale, ha mostrato di saper dire le cose che non si dicono e poter immaginare le cose che non si fanno. Insomma, ha dimostrato di poter rompere con l’ordine simbolico. Il suo programma è pieno d’idee che all’interno di questo sistema socioeconomico ci siamo abituati a pensare impossibili, ma che appena fuori cominciano ad assomigliare a quello che Brecht, nel suo Elogio del Comunismo, chiamava «la cosa semplice / che è difficile fare».
Una parola in particolare ricorre tra le sue proposte: free. Free buses, free child care. In questo contesto free significa ovviamente gratuito o gratuita, ma il termine in inglese ha un doppio valore, vuol dire anche libero o libera. Mamdani ha capito (o forse ha solo intuito, ma tanto basta) che per muovere il tempo – fare la rivoluzione, si sarebbe detto una volta – bisogna dare qualcosa per niente, sospendere la logica dello scambio equivalente che regola i nostri sistemi di mercato: produrre un eccesso, uno scarto, anche ideale, ma non solo. Certo, per ora è una rivoluzione di sole parole, e nessuno s’illude che New York sia un microcosmo necessariamente replicabile, ma in fondo i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo. L’establishment democratico, ormai senza dubbio tra le formazioni politiche più avverse al rischio che la storia umana ricordi, farebbe bene a prendere appunti. Pure Trump, dopotutto, ha cominciato così, storpiando parole il cui significato credevamo tutti di avere chiarissimo.
