La polarizzazione non è semplicemente un conflitto più acceso del solito, né la naturale contrapposizione tra idee diverse. È un processo più sottile e corrosivo, in cui la differenza politica si irrigidisce fino a trasformarsi in distanza emotiva, sociale e cognitiva. Non nasce dal dibattito, ma dalla sua deformazione, cioè quando le opinioni diventano identità, quando il disaccordo si traduce in ostilità, quando la complessità viene compressa in blocchi morali inconciliabili.

La grammatica del conflitto
Oggi la polarizzazione non descrive solo cosa pensiamo, ma chi siamo e con chi scegliamo di stare. È un fenomeno allo stesso tempo sociale e tecnologico che si innesta sulle vulnerabilità psicologiche delle persone e cresce dentro un ecosistema digitale progettato per massimizzare attenzione, reazione, attrito.
Gli algoritmi non inventano il conflitto, ma lo rendono grammatica quotidiana. Premiano ciò che divide perché ciò che divide performa, generando clic e visibilità, modellando una logica estrattiva che spinge verso ciò che polarizza.
Sempre più spesso, questa dinamica assume i tratti della polarizzazione distruttiva, cioè una configurazione in cui il confronto si inceppa, l’informazione dell’altro viene delegittimata, la complessità evapora, le voci estreme amplificate e le emozioni usate come strumenti di esclusione.
Non è, quindi, il semplice disaccordo, ma la sua mutazione in sospetto sistematico. Un mondo dove l’opinione dissidente è subito letta come una minaccia.

Democrazia: uno spazio pubblico comune
A farne le spese non è solo la qualità del discorso pubblico, ma il tessuto stesso della convivenza democratica.
La democrazia, infatti, non richiede unanimità, ma la capacità di condividere uno spazio simbolico comune: disaccordo informato, competizione leale, possibilità di rivedere le proprie convinzioni.
Tutto ciò si indebolisce quando prevale una logica tribale che contrappone un “noi” da un “loro”, costruendo narrazioni totalizzanti in cui il campo avversario è percepito come irrimediabilmente corrotto o pericoloso.
La polarizzazione diventa un problema democratico quando rende impossibile la mediazione e trasforma la politica in un’arena di scontro permanente in cui conta soltanto mobilitare i propri e delegittimare gli altri.
In questo slittamento, la sfera pubblica smette di essere uno spazio di discussione e diventa un campo di battaglia simbolico. Lo vediamo nella retorica del tradimento e della purezza, nei discorsi che invocano l’“invasione” o la “sostituzione”, nelle contro-narrazioni che rispondono con sarcasmo, disprezzo, umiliazione. È un’economia affettiva fondata sull’indignazione e sulla ricompensa identitaria.

Le crisi della sfiducia
Questa dinamica, come ho messo in evidenza nel volume Sfiduciati. Democrazia e disordine comunicativo nella società esposta, è alimentata dall’erosione dell’affidabilità informativa e dalla crisi della fiducia verso istituzioni, media e saperi condivisi. È una condizione di post-affidabilità il terreno su cui germoglia la polarizzazione contemporanea.
Dove mancano fiducia e orientamento, la selezione delle informazioni diventa tribale, la verità negoziata per appartenenza.
Eppure, questa non è una condizione naturale o inevitabile.
Nell’Annale 2025 della Fondazione Feltrinelli, Democrazia ai margini. Disinformazione e manipolazione dell’opinione pubblica nell’era digitale, viene mostrato come la polarizzazione sia parte di una trasformazione strutturale della sfera pubblica “piattaformizzata”, attraversata da nuove tensioni tra centro e margine, visibile e invisibile, istituzioni e contro-pubblici.
È dentro queste fratture che proliferano sfiducia, manipolazione e radicalizzazione, ma anche possibilità di rinnovamento democratico.
Ridurre la polarizzazione non significa aspirare all’armonia, ma ricostruire le condizioni minime della fiducia reciproca e della responsabilità comunicativa. Significa recuperare la qualità del disaccordo: un attrito generativo, che apre invece di chiudere, che chiarisce invece di dividere. La democrazia vive del conflitto, ma muore nella guerra culturale permanente.

