Il patriarcato non esiste! Ogni volta che qualcuno, di solito un uomo, nega l’esistenza del patriarcato, in realtà, conferma il contrario. Il patriarcato è una struttura di potere basata su norme sociali, che attribuiscono agli uomini una posizione di dominio e di privilegio sociale. Il fatto che in Italia molte delle leggi che lo sancivano siano state superate, peraltro tardivamente, non significa che nella cultura e nella società il patriarcato sia stato abbattuto, perché le basi che lo determinano hanno radici profonde e sono dure a morire.
Dal 1946 le donne hanno diritto di voto, dal 1970 esiste il diritto al divorzio, dal 1978 quello all’aborto (peraltro tuttora ostacolato dall’obiezione di coscienza), dal 1981 non esiste più il diritto d’onore e dal 1996 lo stupro non è più reato contro la morale (ci sono voluti 20 anni, dal 1977, per approvare la legge). Quindi, il nostro ordinamento giuridico, anche se lentamente, è comunque andato avanti. Non basta, però, a cancellare l’oppressione e fare finta che una prevaricazione millenaria non sia mai esistita e, soprattutto, che non sia più un problema. I dati sulla violenza di genere sono lì a testimoniarlo.
Un uomo che dice che il “patriarcato non esiste” in realtà, più o meno consapevolmente, sta difendendo il proprio privilegio, da un punto di vista sociale e culturale, ma anche economico.
Patriarcato e capitalismo
Benché abbia origini ben più antiche, il patriarcato trova, infatti, uno dei suoi più stretti alleati nell’attuale sistema capitalistico e nel predominio del lavoro produttivo su quello riproduttivo. Oltre che nella cultura e nell’educazione, le radici dell’oppressione e della discriminazione di genere affondano nella diversa condizione economica di uomini e donne, nelle diverse opportunità di lavoro e nella tuttora ineguale suddivisione dei compiti di cura in famiglia. Anche in questo caso, la parità salariale è sancita dal 1977 e non troverete norme che consentano le discriminazioni. Ma la realtà è tutt’altra.
Il tasso di occupazione delle donne in Italia, soprattutto al Sud, continua a essere molto inferiore a quello degli uomini. Le donne, anche ai livelli più alti di istruzione, continuano a guadagnare meno dei loro colleghi uomini e hanno percorsi di lavoro e di carriera più discontinui. A monte, sono impiegate nei settori che producono meno valore aggiunto, soprattutto la cura, i servizi e la distribuzione commerciale, dove i salari sono più bassi ed è più diffuso il part time involontario e il lavoro precario. Senza contare che quasi una donna su cinque lascia il lavoro dopo la nascita di un figlio.
Lotte femministe e lotte del lavoro
Per questo, l’intreccio tra le lotte femministe e le lotte sul lavoro è decisivo. Le prime assumono un punto di vista sempre più intersezionale e di classe, perché le discriminazioni di genere sono trasversali, ma la condizione di una donna manager non è quella di una operaia tessile. Le rivendicazioni femministe si pongono non soltanto il tema del lavoro riproduttivo e di cura ma anche, sempre più spesso, quello della condizione materiale di esistenza e di lavoro delle donne e di coloro che subiscono ulteriori forme di oppressioni, come le donne migranti e le soggettività LGBTQ+.
Il movimento sindacale, d’altra parte, è chiamato ad assumere un punto di vista che tenga insieme diritti civili e diritti sociali. Le due dimensioni sono strettamente interconnesse e separarle non ha senso. Il sindacato è una organizzazione mista per definizione, perché la sua rappresentanza è generale, ma non può prescindere dall’interrogarsi sull’oppressione del sistema patriarcale e su come il tema della libertà e dei diritti civili, della difesa del diritto all’aborto e alla salute delle donne e del riconoscimento delle identità di genere, si intreccia con il lavoro e le condizioni materiali di esistenza delle donne e di ogni soggettività LGBTQ+.
Il sindacato dovrebbe anche superare la trappola di tutte quelle misure politiche e contrattuali che considerano il lavoro di cura un “problema” delle donne, ghettizzandole in quanto madri o caregiver.
La migliore risposta per le donne, in realtà, è quella più universalistica, a partire dal salario minimo (come fu la scala mobile), perché tutelare i salari più bassi risponde soprattutto a chi è inquadrato nelle mansioni meno qualificate e nei settori più femminilizzati. Altrettanto vale per la riduzione dell’orario a parità di salario, il controllo sui ritmi, il contrasto ai part-time involontari, alla precarietà e al lavoro domenicale e festivo, la riduzione dell’età pensionabile. Senza contare le altre misure universalistiche di difesa dello stato sociale, in particolare dei servizi pubblici per l’infanzia e per la non autosufficienza.
Insomma, la lotta al patriarcato, in fin dei conti, non è così diversa dalla lotta al padronato. Anche per questo, dal 2017, il movimento internazionale di Non Una di Meno ha reso l’8 marzo una giornata di sciopero e di lotta. Le discriminazioni e i pregiudizi vanno cancellati a scuola, in famiglia e nelle strade come dentro i posti di lavoro che quotidianamente attraversiamo.